il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2020
Biografia di Jean Genet
“J’ai parlé de la violence” (Ho raccontato la violenza). Basterebbe questa nota manoscritta sul margine di un foglio di giornale dallo scrittore francese Jean Genet (1910-1986) per riassumere tutta la sua esistenza, sempre in malfermo bilico tra poesia e malvagia.
Per Sartre, era un bambino scacciato dalla propria infanzia; per Edmund White, un trasformista dalle diverse vite; per Georges Batailles, aveva un “orgoglio luciferino”. Tutti e tre lo conobbero dal vero e lo fotografano per ciò che fu. Ma c’è sempre qualcosa che sfugge di Jean: da un lato è il figlio illegittimo di una serva; poi, l’omosessuale vizioso cui piacevano i rapporti occasionali con i giovani proletari prestanti (sull’immaginario dei marinai nei porti è costruito il perturbante Querelle de Brest); è ancora il ladro sfrontato che viene arrestato e dalla sua cella scrive la maggior parte delle sue opere. Dal 1925 al ’48 accumulò soggiorni tra riformatorio, manicomio e carcere. A tal proposito, Cocteau (che fu suo amico) racconta che, a processo per furto, di fronte al giudice che gli chiese “Cosa direbbe, se rubassero i suoi libri?”, il nostro rispose: “Sarei fiero”. Ma fu molto altro. Nella sua vita, come nei romanzi – un impasto infuocato d’immaginazione e autobiografia – il crimine è idealizzato, anzi di più, erotizzato, quasi fosse un rito religioso come ne Il Miracolo della Rosa.
Ma è soprattutto l’ultimo Genet che sfugge: a partire dal 1968 (ha 50 anni, è innamorato di un acrobata marocchino, Abdallah Bentaga, di felina bellezza) viaggia per il mondo, scopre che la sua rivolta interiore si annoda alla politica. Su un aspetto concordano tutti: se ne andava in giro (Africa, Asia minore, Usa) sempre con due valigie e una cartella nera. Dentro, diceva “c’è tutta la mia vita”. Così, vivendo con i diritti delle rappresentazioni teatrali delle sue pièce, ricerca “lo spirito di maggio”, la rivoluzione: abbraccia la contestazione delle Black Panters negli Stati Uniti – anche perché aveva un’ossessione per gli uomini di colore e ben dotati – e la lotta dei Palestinesi dell’Olp (fu il primo occidentale a Chatila). Per lui, la difesa dei neri o dei palestinesi giustifica posizioni come “la guerra, l’appello all’omicidio e perfino l’odio del nemico”.
Il contenuto di quelle valigie non è mai stato svelato, ma domani la mostra Le valigie di Genet all’Imec ne esporrà i segreti: quattordici anni di scrittura, tra camicie, sciarpe, un giubbotto blu e un solo libro feticcio, le Illuminazioni di Rimbaud, che leggeva e rileggeva. Una frase è sottolineata con veemenza: “Può esserci solo la fine del mondo, andando avanti”. Genet non aveva smesso di scrivere, dunque, ma solo di pubblicare. Due saggi sul jazz, un racconto sulla sua infanzia, testi incompleti, alcuni disegni di Jacky Maglia, il vagabondo che Genet aveva aureolato a compagno di vita, lo stesso che lo rinvenne il 15 aprile 1986 steso sul pavimento del bagno del Jack’s Hotel di Parigi esanime. In una di queste matite, Genet è steso sul letto e appare visibilmente malato, il cancro alla gola gli aveva leggermente imbolsito l’espressione. In un altro, firmato dall’amico Alberto Giacometti, siede sopra la scrivania del comune avvocato Roland Dumas, cui Genet consegna le valigie prima di morire, dicendogli “Fanne quello che vuoi”. Ma soprattutto, molte sceneggiature. Sul frontespizio di una, si legge “pour David”. Si tratta di David Bowie. Il cantante, infatti, affascinato dal primo romanzo di Genet Notre-Dame dei fiori gli aveva chiesto la riduzione cinematografica perché voleva interpretare il protagonista, Divina, un travestito. I due si incontrarono a Londra, in un ristorante. Genet entra e nota una bella donna sola al tavolo e le lancia: “Mr Bowie, I presume”. Il cantante si era preparato per quel ruolo, poi però il progetto fallì per mancanza di fondi. Infine, il manoscritto del suo ultimo libro uscito postumo, Un captif amoureux.
Ma c’è un reperto che ci consente di penetrare davvero il laboratorio dell’irregolare scrittore nomade: migliaia di note autografe, appunti che lo scrittore prendeva sui fogli più improbabili. Ritagli di giornali, cartine dello zucchero, fatture d’hotel. Sopra, vi appunta la vita. Leggiamone una: “Il gioco dell’opera d’arte è che non bisogna aspettarsi che un artista metta il suo gioco a disposizione di qualcosa che non sia l’arte stessa”.