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 2020  ottobre 29 Giovedì calendario

Intervista a Daniel Moise Barenboim

Direttore d’orchestra e pianista tra i più famosi al mondo, Daniel Moise Barenboim è noto per essere uomo di dialogo e di passioni. Quattro passaporti, argentino, tedesco, israeliano, palestinese, nato a Buenos Aires, cittadino del mondo, ebreo inviso a Netanyahu, ha dato vita con il filosofo palestinese Edward Said a un’orchestra, la Divan, che riunisce giovani musicisti arabi e israeliani. Ha creato un’Accademia umanistica e asili musicali a Berlino e a Ramallah. Dal 1992 è direttore della Staatsoper di Berlino e per nove anni, fino al 2014, ha guidato anche la Scala.
Essere Daniel Barenboim, un mestiere complesso?
«Direi privilegiato. Essere musicista è una fortuna, la garanzia di una vita speciale, senza mai noia. Puoi dirigere mille volte la stessa sinfonia, suonare lo stesso brano e imparare sempre qualcosa di nuovo. Anche il pezzo più breve, un Valzer di Chopin, un Impromptu di Schubert, è un miracolo. La musica è come la vita, viene dal nulla, vive nel momento in cui qualcuno la esegue e muore. Praticarla è dialogare con una specie di morte».
Pensa spesso alla morte?
«Non troppo. Il 15 novembre compirò 78 anni, ma non mi sento vecchio. Un po’ meno giovane, forse. Il vero segnale è arrivato 15 anni fa, non riuscendo a infilarmi un calzino stando in piedi, mi sono detto: ahi, qualcosa sta cambiando. Ma poi ho visto che tutto continuava come prima… La penso come Churchill».
Sarebbe?
«A 80 anni gli hanno chiesto il segreto della sua vitalità. E lui che mangiava e beveva e come me fumava il sigaro, ha risposto: lo sport. Ah, e quale? Nessuno. Il segreto è non fare sport. Condivido».
Il fermo del precedente lockdown non le è pesato?
«Mi è dispiaciuto dover cancellare dei concerti. Ma ho ripreso a suonare il piano, il mio primo amore. Ero un bimbo prodigio, a 10 anni la mia prima Sonata di Beethoven in pubblico. Quelle Sonate mi hanno accompagnato tutta la vita. Così, visto che mai negli ultimi 50 anni ho avuto tre mesi di tempo tutti per me, ne ho approfittato per studiarle ancora, per andare più a fondo nella partitura, trovare nuove connessioni dinamiche, armoniche, acustiche. E alla fine ho deciso di inciderle per la quinta volta. La mia versione definitiva».
Il cofanetto delle Sonate, dal 30 ottobre in uscita per Deutsche Grammophon, comprende anche le «Variazioni Diabelli». Con queste ultime, virus permettendo, dovrebbe tornare alla Scala il 5 dicembre.
«Lì ho passato solo momenti meravigliosi, tornarci per me è una grande gioia».
Ha annunciato che se si esibirà devolverà il suo cachet al teatro.
«Per i teatri è un momento di grande sofferenza, mi pare giusto dare una mano».
La violinista Anne-Sophie Mutter sostiene che nessuno come lei incarna la filosofia umanistica di Beethoven.
«Un grande complimento. La fortuna è stata avere genitori intelligenti, mio padre, il mio unico maestro, mi ha insegnato l’unità profonda tra musica e vita. E per questo lo ringrazio ogni giorno. E la musica mi ha spinto a un impegno civile e politico».
Insomma, la musica rende migliori?
«Non so se come essere umano sono migliore che come musicista. Ma provo a unire le due cose. La musica è connessa con la nostra parte spirituale. Noah Harari, l’autore di Sapiens. Da animali a dei, dice che la spiritualità contiene domande, la religione dà risposte. La musica è importante perché pone domande».
I suoi figli sono entrambi musicisti ma su fronti diversi: Michael violinista classico, David sull’hip hop.
«Stesso padre, stessa madre, stessa scuola… La prova è che né la genetica né l’educazione bastano a spiegare tutto. Ma va bene così. L’hip hop non è poi così male».
Vede bene il futuro della musica?
«Come Heiner Müller, credo che l’ottimismo sia mancanza di informazione».
E il suo futuro? Più al piano o sul podio?
«In orchestra suonano gli altri, al piano sei tu. Spero di smettere prima di perdere l’obiettività. Non voglio che qualcuno dica a un mio figlio: tuo papà suona proprio bene e lui gli risponda: sì, ma se l’avessi sentito 10 anni fa...».