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 2020  ottobre 29 Giovedì calendario

Marco Pantani ricordato dalla manager Manuela Ronchi

Manuela Ronchi è stata ed è la manager di molti personaggi dello spettacolo e dello sport, da Gianmarco Pozzecco a Max Biaggi. Ma soprattutto, per il grande pubblico, è la donna con gli occhiali azzurri che fu consigliera, manager, portavoce e ombra di Marco Pantani nei suoi ultimi cinque anni di vita. Con "Le relazioni non sono pericolose" (Gribaudo editore), da oggi in libreria, Ronchi racconta i mille incontri della sua carriera e i giorni bellissimi e dolorosi di quella storia che ancora oggi è un fitto, potentissimo mistero. Nello studio della sua Action Agency, all’interno di un palazzo Liberty nel centro di Milano, Ronchi ricorda, evoca, si commuove.
Nel capitolo dedicato a Marco, lo racconta come "un omino minuto", ma "magnetico, con un carisma fuori dal comune".
«Sin dal nostro primo incontro, a Cesenatico, si stabilì un contatto speciale. A lui serviva una persona che gestisse i suoi diritti d’immagine.
Aveva appena vinto Giro e Tour 1998, era lo sportivo più amato d’Italia. Nel ciclismo non c’erano donne, e ancora oggi sono pochissime. Lui si fidò di me».
Nel 1999, la mattina di Madonna di Campiglio, quando Pantani fu trovato con l’ematocrito oltre i limiti consentiti, lei era là.
«Era la penultima tappa di un Giro già vinto, avevo preparato i completini del Pirata, ma non c’era un’aria di festa. Era stato un Giro strano, sin dalla partenza. Marco aveva parlato contro la sovrapposizione dei controlli antidoping dell’Unione ciclistica internazionale e del Coni. In quel momento partì una caccia alle streghe. Fui io a consigliare a Marco di uscire dal portone principale dell’hotel Touring, il Pirata doveva affrontare i giornalisti, non scappare. Quel giorno, e non a Rimini cinque anni dopo, Marco è morto».
Nel libro racconta anche dell’inizio della dipendenza di Marco dalla cocaina: come andò?
«Successe pochi mesi dopo Campiglio. Qualcuno gli aveva raccontato che la cocaina aiuta a guardare oltre, ad aprire una finestra sulle cose e a vedere la verità. Lui cercava di scoprire chi l’avesse fregato al Giro del ’99».
Quando è morto, Marco sapeva tutta la verità?
«Io credo di sì. Non grazie alla cocaina, naturalmente. Ma era arrivato a un grado di consapevolezza di quei fatti, aveva chiuso un cerchio dentro di sé».
Lei si è occupata anche dei suoi
rapporti con la stampa: come vedeva i giornalisti?
«Ero io a fargli una sorta di rassegna stampa, al mattino, gli piacevano i modi gentili ma anche energici di Gianni Mura. Era innamorato del soprannome Pantadattilo . Gli sembrava rispecchiasse la sua natura. Aveva un’anima romantica, in quelle cronache si ritrovava. Gran parte della stampa gli voltò le spalle troppo presto però».
Ha ritrovato quel magnetismo anche in altri incontri nella sua carriera?
«Ho frequentato tanti personaggi, ognuno con grande personalità, ma quello con Marco resta il più grande incontro della mia vita. Il più potente, il più totalizzante».
Le ricostruzioni della sua morte la convincono?
«Non sono aggiornata, è uscito di tutto. A me dispiace vedere quelle immagini crude del suo corpo, la cronaca che si è impossessata di un artista e che ne racconta, ormai, solo la sua fine. Marco è morto come un pittore a cui hanno tolto il pennello.
Io lo ricordo, lo scrisse Mura, come un cuore che pedala».