Corriere della Sera, 28 ottobre 2020
Su "Processo alla Russia" di Sergio Romano (Longanesi)
Esce domani per i tipi della Longanesi Processo alla Russia, l’ultimo di una serie di saggi che Sergio Romano ha dedicato a quel Paese, un «arcano avvolto in un mistero all’interno di un enigma», come ebbe a dire Winston Churchill nel 1939. È una meticolosa ricostruzione storica delle vicende della Russia, dalle origini ai giorni nostri, arricchita di considerazioni geografiche, etniche, religiose e di cultura politica. Un «processo» in cui però l’autore non assume né le vesti del pubblico ministero né quelle della difesa; ma nemmeno quelle del giudice: la «sentenza» è aperta perché, da profondo conoscitore della storia e delle relazioni internazionali, Sergio Romano sa che la politica è un processo in cui la parola fine semplicemente non è mai scritta.
«La geografia, e non la storia, ha dominato il pensiero russo», scriveva nel 1966 lo storico americano James Billington. L’influenza della geografia sulla storia appare nitidamente nel testo di Sergio Romano: quello spazio sconfinato, che conta oggi 17 milioni di chilometri quadrati (ma che erano 23 milioni nel 1914, quasi due volte e mezzo il Canada, secondo Paese più esteso al mondo) e undici fusi orari, è stato, scrive Romano, «il migliore alleato dello Stato moscovita» nelle sue diverse reincarnazioni. Ma non solo: quegli spazi hanno anche «foggiato le loro (dei russi, ndr) istituzioni, condizionato la loro cultura politica, mescolato quella combinazione di aggressività e di paura che è ancora oggi il dato caratteriale della loro politica estera».
I tratti specifici, per non dire unici, della cultura politica russa sono forse l’aspetto più intrigante di quell’arcano misterioso di cui parlava Churchill; e proprio su di essi Romano ci offre una serie di considerazioni illuminanti.
Il marchese de Custine, autore di un celebre reportage sulla Russia del 1839, sosteneva che i russi non possono fare a meno di mentire, diffidano della verità, e vivono alle spalle degli altri Paesi «appropriandosi di tutto ciò che può essere utile»; e nello stesso 1839 il filosofo Pëtr Caadaev affermava che la Russia difetta di storia nazionale: a differenza dei Paesi europei, che agivano consciamente sul teatro della storia, la Russia «si era comportata come una rozza, inconsapevole forza elementare» fino all’epoca di Pietro il Grande, che le aveva imposto di «“apprendere” l’Europa come un bambino sui banchi della scuola».
L’assenza di storia nazionale, scrive Romano appoggiandosi sulla testimonianza di Puškin, spiega anche una identità nazionale dalle arie di patchwork, messa insieme «rubando i tratti dei popoli conquistati e di quelli da cui sono stati invasi»: «i russi sono stati anche contemporaneamente svedesi, baltici, ottomani, persiani, armeni, georgiani, azeri, tartari, uzbechi». Ma anche tedeschi, se è vero, sempre secondo Puškin, che la dinastia dei Romanov ha diluito il suo sangue slavo con quello delle principesse tedesche lungo secoli di arrangiamenti politico-matrimoniali.
Vista così, sembrerebbe la storia di un Paese senza personalità e senza meta. Ma a dare coerenza alla storia russa è proprio quella «combinazione di aggressività e di paura» di cui si è detto, un «dato caratteriale» entrato nel suo Dna dopo il riscatto dal «giogo tataro»: da allora, ha scritto lo storico G. Patrick March, «la paura paranoica di un’invasione... ha generato l’impulso a espandersi sui territori dei vicini, per evitare che i vicini si espandessero sui loro». Ma l’esigenza difensiva è solo metà del problema; l’altra metà è stata così descritta dallo storico e ammiraglio americano Alfred Mahan nel 1890: «L’irrimediabile lontananza dai mari aperti (cioè liberi dai ghiacci tutto l’anno, ndr) ha reso difficile il processo di accumulazione della ricchezza… Dunque, è logico e naturale che la Russia sia insoddisfatta; e l’insoddisfazione si trasforma facilmente in aggressione».
La parte finale del libro di Romano è dedicata agli anni successivi al crollo dell’Urss, e si conclude sull’attualità, cioè sulla verifica di quanto la «combinazione di aggressività e di paura» sia – ancora oggi – il tratto unificante di una politica estera apparentemente erratica. Cosciente delle sue debolezze strutturali, la Russia vive costantemente nel «timore di non essere considerata all’altezza delle sue ambizioni e speranze»; quindi, «se il mondo le volta le spalle e la ignora, la sua reazione può essere brusca e nervosa». L’espansione della Nato fino alle frontiere dell’ex Urss (e anche al loro interno, vedi i Paesi baltici), la provocatoria ambiguità americana ed europea sull’Ucraina e la Georgia, la nostalgia di un nemico che giustifichi «l’esistenza di una grande organizzazione militare guidata dagli Stati Uniti»: sono tutti casi di sottovalutazione che, afferma Romano, non potevano non determinare l’aggressiva reazione incarnata da Vladimir Putin. Ma nel dinamismo putiniano si trova anche la traccia di un’altra molecola del Dna storico russo ricordata da Romano: l’abilità ad approfittare del declino degli altri. Oggi, non più gli imperi «mongolo, khazaro, persiano, turco e cinese», ma quello americano e quello europeo.
Sergio Romano si dimise dal suo incarico di ambasciatore a Mosca perché il governo italiano non vedeva di buon occhio la sua indipendenza di analisi e di giudizio. Fu una grave perdita per il corpo diplomatico; ma è stata una benedizione per tutti coloro che hanno l’ambizione di penetrare i misteri dell’arcano russo.