Un anno di contratto, uno staff al suo seguito con interprete e tecnico, una città via l’altra fra Cina e Mongolia, Daniel Bozzo osserva oggi dai social l’Italia ripiombata nell’emergenza Covid, restando però concentrato su un lavoro che prevede continui spostamenti in aereo o in macchina e giornate infinite a prendere misure, ma anche a dispensare consigli. Il suo arrivo nelle città cinesi è di solito preceduto da un notevole pressing mediatico, con tanto di manifesti e foto che annunciano l’arrivo del "sarto italiano".
Se l’aspettava, Bozzo?
«Un po’ me lo sono cercato. Sono io che mi sono fatto avanti, quando per caso mi hanno raccontato la storia di un sarto di Torino chiamato in Cina a lavorare per questa grande catena di abbigliamento. Ho chiesto di essere messo in contatto con loro e abbiamo trovato presto l’accordo».
Ma Genova, il suo laboratorio, la
sua famiglia?
«È il lato peggiore della storia, mia moglie e le mie due figlie lontane. E poi gli amici, i miei clienti. Ma la sto vivendo come un’esperienza credo irripetibile e comunque molto formativa».
Ma di preciso che cosa fa il sarto italiano in Cina?
«Prende le misure per fare le camicie, che è esattamente il mio lavoro. Ma non mi fermo a questo, dispenso consigli sull’abbigliamento, su come vestirsi, sullo stile. E poi mi presto ovviamente ai selfie, alle foto, ai video, ai social. Molti mi vogliono invitare a cena, spesso ci sono momenti conviviali. Va bene, fa parte del lavoro e alla sera, quando torno in albergo, sono davvero sfinito».
Quando è arrivato?
«Il contratto doveva partire a luglio, ma per il Covid abbiamo avuto un po’ di ritardo. Sono partito il 14 agosto, Roma-Shangai via Helsinki.
Non so quanti tamponi ho fatto e poi 14 giorni di quarantena in albergo, appena arrivato».
Ma come affronta un lavoro che la mette in contatto ogni giorno con centinaia di persone? Non teme anche per la situazione sanitaria?
«La mia esperienza è una specie di tour, organizza tutto la company per cui mi sposto da una città all’altra.
Rispetto a quello che vedo e sento dall’Italia, io qui ho l’impressione che la situazione sia più tranquilla.
Quando vengono segnalati casi sospetti si mette in movimento una macchina sanitaria impressionante, che sottopone l’intera città a tamponi, a milioni. E poi c’è una app obbligatoria che tiene monitorata ogni cosa».
E le mascherine?
«Obbligatorie negli spostamenti, treni, aerei, ma in negozio no».
Come si svolge il suo lavoro?
«Entra il cliente, prendo le misure e in inglese le trasferisco alla traduttrice che a sua volta le affida a un tecnico che le consegna all’azienda. Poi avanti un altro.
Anche i ritmi di lavoro sono impressionanti. Ma è tutto il Paese che lo è e che dà proprio l’impressione di voler spingere per la crescita».