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 2020  ottobre 27 Martedì calendario

A un anno dalla morte di al-Baghdai l’Isis è ancora vivo

Un anno esatto fa, dopo alcune anticipazioni sui media, il presidente americano annunciava ufficialmente al mondo di aver ucciso il terrorista più pericoloso al mondo, Abu Bakr al-Baghdadi, in un’operazione condotta alcune ore prima dalle forze speciali statunitensi in Siria. All’alba di quella domenica 27 ottobre, gli uomini della Delta Force avevano preso di mira, dopo un’attività di sorveglianza durata un paio di settimane, un edificio nei pressi del villaggio di Barisha, nella provincia nord-occidentale di Idlib, a pochi chilometri dal confine con la Turchia.
Secondo la ricostruzione presentata alla conferenza stampa di Donald Trump, l’autoproclamato “Califfo” si era riparato in un tunnel sotterraneo con i suoi tre figli, e poi si era fatto esplodere attivando un giubbotto esplosivo. Il fatto che il raid abbia avuto luogo in una regione controllata (ancora adesso) da una coalizione di milizie ribelli, alcune tra le quali vicine ad al-Qaeda, aveva lasciato molti esperti a bocca aperta. Molti ipotizzavano, infatti, che il leader dell’organizzazione jihadista si nascondesse nelle sacche di re- sistenza del Daesh in Iraq, o quantomeno al confine tra Siria e Iraq, non tra i suoi rivali.
A distanza di un anno, i misteri non accennano a esaurirsi. A partire dalla sorte del successore di Baghdadi. Nelle ore seguite alla morte del suo leader, il Daesh aveva diffuso il nome Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi, un nome di battaglia dietro il quale le intelligence occidentali avrebbero identificato – il condizionale è d’obbligo – la figura di Amir Mohammed Abdul- Rahman al-Mawli al-Salbi, che conta diversi alias tra cui Abdullah Qardash. Di Salbi si sa che era detenuto al Camp Bucca, lo stesso in cui era rinchiuso Baghdadi, e che aveva guidato nel 2014 la persecuzione contro la minoranza yazida di Sinjar, in Iraq. Ma in un anno intero Salbi non è mai comparso, né in pubblico né in messaggi audio o video. È possibile che il gruppo terroristico stia ancora cercando di riorganizzare le sue falangi dopo la perdita. L’ultimo messaggio del Daesh, diffuso dal suo portavoce Abu Hamza al-Qurashi esattamente nove mesi fa, invita i militanti a una «nuova fase» da lanciare, che aspetta solo di esplodere. Sbaglia, infatti, chi pensa che la morte del “Califfo” abbia segnato la fine di un’organizzazione che ha creato la prima forma di terrorismo statuale della storia. Semmai, negli ultimi mesi il fenomeno Daesh è sicuramente passato in secondo piano sui mass media, a causa dell’esplodere della pandemia del Coronavirus. Ma la verità è purtroppo diversa. I miliziani che con ferocia avevano sparso terrore nel territorio si sono dati alla macchia o radunati in sacche di resistenza nel deserto. Molti restano nelle carceri dei curdo-siriani. Molti ne sono stati rilasciati per l’amnistia generale decretata dalle autorità curde il 15 ottobre: un provvedimento che ha fatto molto discutere e che ha riguardato centinaia di membri siriani di medio e basso rango del Daesh e altri gruppi armati. Le autorità curde si sono giustificate asserendo di aver rilasciato soltanto coloro «che non si sono macchiati di crimini di sangue», ma il timore è che il Daesh possa trovare nuova linfa anche tra di loro. Nei fatti, il Comando centrale Usa e il Dipartimento della Difesa asseriscono, in un rapporto pubblicato recentemente, che gli attacchi del Daesh sono aumentati nel periodo aprile-giugno 2020. Di pochi giorni fa, per limitarci all’ultima settimana, gli scontri registrati nella provincia di Hama tra i miliziani del Daesh e le forze governative siriane. In Iraq, sempre nei giorni scorsi, si sono segnalati attacchi dei jihadisti contro diversi villaggi a sud di Kirkuk, poi nella provincia di Salahuddin e persino vicino a Baghdad. Senza parlare delle esplosioni “itineranti” nella zona sotto controllo curdo, da Manbij a Raqqa, e da al-Sabha (a sud dei Deir Ezzor, contro un convoglio della Coalizione internazionale) a Dashisha, sul confine iracheno.