la Repubblica, 27 ottobre 2020
Nonni contro nipoti
I giovani non sono una corporazione e i vecchi nemmeno. Si registrano con una certa preoccupazione, dunque, i primi sintomi di una lettura generazionale del Covid, con i nipoti accusati di contagiare i nonni, e sul fronte opposto l’allarme rosso per l’isolamento che prostra irrimediabilmente adolescenti e bambini, poveri figli. Opposte lagne che rischiano di essere il remake degli opposti estremismi.
Beninteso c’è una fetta di oggettività, a monte della discussione. Vecchiaia e giovinezza hanno necessità differenti, e di conseguenza costumi difformi. La clausura pesa meno a chi ha già potuto vivere i suoi anni promiscui, già sperimentato i suoi eccessi, già compiuto i suoi bagordi. Mentre chi si affaccia alla vita ha urgenza di viverla, impazienza di consumarla. E dunque sì, la frenesia dei giovani non si concilia con l’incolumità dei vecchi, e non per malvagità o per distrazione, ma perché la vita ha un’inerzia invincibile, spesso sorda e cieca. E questa inerzia, in tempi di contagio, è tutta a svantaggio dei vecchi e della loro fragilità. Ma questo, come dire, è la parte inevitabile (una delle tante parti inevitabili) della catastrofe chiamata Covid. Evitabile, magari, è che su quella zattera tutto sommato ancora solida e quasi confortevole che è la società contemporanea (con le ambulanze, gli ospedali, la ricerca medica, i vaccini e tutto il resto) ci si accapigli e ci si azzanni come i naufraghi del Medusa. Di un sindacato dei vecchi, e di un sindacato dei giovani, non abbiamo proprio bisogno.
Mi spiego. Sabato 19 settembre passai, di sera tardi, in piazza delle Erbe a Verona, che era gremita di migliaia di ragazzi, molti senza mascherina, tutti col bicchiere in mano. Già si contavano, precisi come sentenze, i primi numeri nefasti, il contagio stava risalendo giorno dopo giorno. Già si sapeva tutto, dunque, a meno di essere un negazionista, dunque un ebete o un farabutto. Una parte di me augurò a quei ragazzi che lo spritz gli andasse di traverso, perché era evidente la loro incoscienza, evidente che quel gregge non solo non era incolume: era a disposizione del virus. Era il banchetto del demonio, per dirla come la direbbe un virologo di Radio Maria.
Ma un’altra parte di me ha pensato che quell’adunata, e altre consimili, era arginabile solo fino a un certo punto. Cioè non più di tanto. Faceva parte, quell’adunata, della natura, proprio come il coronavirus. Era stata allestita dagli ormoni maschili e femminili, che a quell’età sono incoercibili. Anche dall’egoismo, certo, che a quell’età è incoercibile. E dunque, e insomma, stabilii un compromesso tra il me disgustato (io, tra l’altro, la movida la odio per davvero: puzza di Bisanzio prima della caduta) e il me comprensivo.
Non sto dicendo che va assolto chi se ne frega delle disposizioni e se ne va in giro senza mascherina, e si intruppa, e si strofina. (Quella sera, in piazza delle Erbe, avrei applaudito una carica dei carabinieri a cavallo). Sto dicendo che non possiamo illuderci di ridurre a prudenza, a ragionevolezza, a legge e ordine ciò che è anche natura, dunque disordine, anche se facciamo benissimo a cercare di ridurre a prudenza, a ragionevolezza, a legge e ordine, ciò che è natura, dunque disordine. Disordinata è la pandemia, l’enorme boccia che ha travolto come birilli le nostre vite. Disordinata la malattia, la paura, la morte, che taglia il conto dei giorni senza alcun riguardo per le nostre agende. Ma la nostra quot a d’ordine, di autodifesa, di dignità, di sicurezza, non possiamo giocarcela sul tavolo del match vecchi/giovani. No, per carità. I giovani sono stati bravissimi, nella clausura della scorsa primavera, disciplinati e gentili, lo si dice in tutte le famiglie e lo si dice perché è vero. I vecchi sono bravissimi anche da prima, sovvenzionando con le loro pensioni e i loro risparmi i mojito e gli spritz (interminabili) dei loro nipoti. Metterli gli uni contro gli altri non è solo sbagliato, è anche controproducente. Se c’è una cosa che le catastrofi possono insegnarci, oltre al fondamentale fatto che no, non siamo invulnerabili, è che bisogna cercare di sopportarci, capirci, perfino volerci bene.
I nipoti non sono depressi per colpa dei nonni che li obbligano a restare a casa, sono depressi anche per loro autonome mancanze, e debolezze, e indugi; i nonni non muoiono per colpa dei nipoti che li contagiano, muoiono generalmente perché da vecchi capita più facilmente di morire. I rispettivi portavoce (comitati, sindacati, associazioni a vario titolo indignate) cerchino di abbassare i toni, che il lutto chiede di parlare a voce bassa.