Corriere della Sera, 27 ottobre 2020
Giappone, Corea, Australia: dove si è domato il Covid
L’ondata del Covid non sta colpendo il pianeta in maniera indiscriminata e uniforme. Anzi, mentre l’Europa e gli Usa fanno i conti con una situazione che di ora in ora sembra sfuggire di mano, dall’altra parte della Terra c’è chi sta riuscendo a domare il «mostro». Cina, Giappone, Corea, Australia sono Paesi in cui l’incremento quotidiano dei malati si conta nell’ordine di poche centinaia se non di qualche decina. Come è potuto accadere? A volte attraverso l’applicazione di misure che ben conosciamo anche in Italia (distanziamento, mascherine) altre volte con un massiccio ricorso a nuove tecnologie di tracciamento.
I dati consultabili sul sito dell’Oms parlano chiaro. La Cina tanto, per cominciare denunciava due giorni fa una crescita di appena 22 casi. Ma se i metodi e la trasparenza del governo di Pechino possono lasciare perplessi, ecco la fotografia della situazione in altri Stati dell’area che per assetto sociale e giuridico sono comparabili con realtà occidentali.
Il Giappone contava due giorni fa appena 699 nuovi contagi, un quinto di quelli registrati ieri nella sola Lombardia. In Corea del Sud lo stesso indicatore scende a 61, addirittura a 5 in Thailandia e Australia. Eppure il virus assedia anche l’Asia: India, Bangladesh, Malaysia, Indonesia hanno una situazione epidemiologica più accostabile a quella europea che a quella dei loro vicini di casa.
Come si è compiuto il «miracolo»? È nota ad esempio la propensione dei giapponesi a indossare la mascherina ben prima della pandemia, solo per proteggere se stessi e gli altri in casi di raffreddori o allergie. Tale pratica ha certamente aiutato a frenare i contagi.
Ma Yosutoshi Nushimura, ministro incaricato della lotta al Covid, spiega anche una diversa strategia. «L’intuizione fondamentale che ci ha aiutati è la nozione di cluster di trasmissione». Cioè: pochi gruppi determinano una altissima contagiosità e dunque è necessario intervenire su quelli in maniera «chirurgica» e tempestiva, isolandoli. Un criterio di mappatura e di incrocio dei dati che ha comportato un ampio impiego di nuove tecnologie. Per il resto il governo di Tokyo ha utilizzato leve tradizionali, ad esempio una forte spinta allo smart working, che ha permesso di liberare gli affollatissimi treni pendolari nipponici.
Digitalizzazione e uso di big data sono la chiave del successo nella lotta al coronavirus in Corea del Sud, dove a marzo la situazione sembrava assai compromessa. Le autorità di Seul non hanno esitato ad avviare una raccolta «a strascico» di dati utili al tracciamento, che alle app da smartphone ha affiancato informazioni rilevate da carte di credito o da videocamere di sorveglianza.
Diverso il discorso riguardante l’Australia. Qui il virus ha colpito duramente ma solo in una precisa regione, quella di Melbourne che ha contato il 90% dei morti dell’intero Paese. È stato scelto di applicare un rigoroso lockdown partito ad agosto e terminato ieri, dopo 112 giorni. È stato impossibile per chiunque entrare o uscire da quel territorio se non per comprovate necessità e chiunque varcasse i confini australiani doveva sottoporsi a quarantena. I risultati sono i soli 5 contagi di ieri.