La Stampa, 26 ottobre 2020
Ritratto di Paul Thomas Anderson
L’ho inseguito a lungo prima di riuscire a conoscerlo: credo che pochi film negli ultimi trent’anni siano paragonabili a Magnolia e Il Petroliere, e pochi registi abbiano dimostrato un analogo talento, potenza espressiva, coraggio e originalità. Non che manchino i riferimenti chiari nel suo cinema, a cominciare da Robert Altman, ma le opere di Paul Thomas Anderson portano con sé un’urgenza e un’energia che oggi non ha pari nel cinema internazionale. È tra i pochissimi considerato un classico ad appena cinquant’anni, e se ti capita di parlargliene sorride con quegli occhi spiritati e dice senza alcuna falsa modestia: «Ho la sensazione, una di quelle sensazioni di pancia, che farò bei film per il resto della mia vita».
L’ho incontrato la prima volta in occasione di Boogie Nights al New York Film Festival, e quando gli feci i complimenti volle condividere con me l’entusiasmo per le sue stesse scelte registiche. Sinceramente mi sembrava un po’ esaltato, ma non riuscivo a dargli torto: tutte le scene a cui faceva riferimento erano folgoranti, a cominciare da quella in cui protagonisti vanno a casa di uno spacciatore e hai la sensazione che stia per scatenarsi la violenza, mentre un ragazzo orientale fa esplodere senza motivo dei fuochi d’artificio: un’idea geniale e apparentemente senza senso, che crea una tensione insostenibile. «È ispirata da una sequenza di Nicholas Ray» mi spiegò .
Gli ho parlato a lungo alla presentazione di The Master, altro film grandioso, ma sottovalutato, come Ubriaco d’amore, commedia romantica struggente e un po’ folle. Iniziai l’incontro proprio da quel film, e mi resi conto che era protetto da una guardia del corpo: immaginai che fosse legato al fatto che The Master racconta - senza mai citarla - la nascita di Scientology. PT, così lo chiamano tutti, era sollevato dal fatto che volessi parlare del suo cinema in generale, e in particolare di quella commedia dal tono in apparenza diverso dall’approccio epico di Magnolia. Fu gentile, illuminante e spiritoso, eluse ogni domanda relativa a Scientology: finimmo per parlare dell’interpretazione di Philip Seymour Hoffman: «È un gigante, in questo film riesce a recitare anche con la nuca». Parlammo quindi della comune amicizia con Jonathan Demme, suo mentore insieme ad Altman: Jonathan aveva lavorato molto con il padre Ernie, doppiatore. «Fu papà, a mia insaputa a chiedere consigli sulla mia carriera a Jonathan, e un giorno mi fissò un incontro con lui». Mi colpì la tenerezza con cui uso l’espressione papà, che definì «un uomo d’avanguardia e avanti nei tempi, che a volte faceva cose strane: era originale in tutto, chiunque lo abbia incontrato ha di lui un ricordo molto forte». Mi rimase impressa poi la riconoscenza e nei confronti di Demme: «Mi ha insegnato moltissimo, ma forse la cosa più importante è quella di restare me stesso».
È nato a Studio City, un sobborgo di Los Angeles, ed ha sempre vissuto nella San Fernando Valley, il quartiere popolare immortalato ripetutamente nei suoi film, riuscendo a costruire un’epica in luoghi molto modesti. È lì che si trova la Magnolia Avenue, ed è lì chealla fine del film piovono rane dal cielo: uno dei finali più coraggiosi e geniali da anni a questa parte, e se si mette in parallelo la scelta di Altman di concludere America oggi con un terremoto, si vede una fondamentale differenza di approccio: le due opere sono strutturate in maniera molto simile, ma nell’ateo il finale catartico è affidato a un terremoto, qualcosa di assolutamente e tragicamente naturale, mentre Anderson sceglie una pena biblica: in quell’occasione mi raccontò che il film era una confessione intesa come il sacramento cattolico.
Dopo aver girato il primo cortometraggio ad otto anni, ha cambiato numerose scuole e college, ma forse l’incontro che l’ha formato di più è quello con David Foster Wallace, suo docente ad Emerson. È probabile che sia stato lui a suggerirgli di debuttare, certo è che PT chiese al padre di utilizzare i soldi per il college, cui aggiunse il denaro vinto al gioco e un prestito dalla ragazza dell’epoca: il risultato fu Coffee and Cigarettes, che ne mostrava in nuce lo spettacolare talento. Applicò la stessa strategia per finanziare il film successivo, Sydney, invitato a Cannes. Riuscì a imporre il suo montaggio in polemica con la produzione, e fu l’inizio della collaborazione con un gruppo di attori che ha chiamato sempre apartire da Seymour Hoffman. La volontà e la necessità di sentirsi circondato da persone che stima è un elemento illuminante della sua personalità .
È lui stesso a definire Magnolia la sua opera migliore, ma la definitiva consacrazione critica avvenne con Il Petroliere, definito da alcuni critici «il miglior film di inizio secolo» e paragonato a John Ford. Personalmente ho amato moltissimo Il filo nascosto, ad oggi il suo ultimo film, mentre sono rimasto affascinato ma anche confuso da Vizio di forma, dal libro di Thomas Pynchon. Del primo mi sono sempre chiesto quanto ci fosse di personale nella storia di un raffinatissimo sarto a Londra negli Anni 50. E quanto rivelasse nel suo rapporto con le donne: dopo una relazione importante ma tormentata con Fiona Apple, PT da quasi vent’anni ha un rapporto con Maya Rudolph, star del Saturday Night Live con cui ha 4 figli. È grazie a lei che ha diretto un episodio di quel programma con Ben Affleck, prima di dedicarsi ad un gran numero di video musicali, instaurando un rapporto di collaborazione e amicizia con i Radioheads. In quello stesso periodo si mise a disposizione di Altman per garantire l’assicurazione, incerta se finanziarne l’ultimo film: «non era solo riconoscenza, per me rappresentava un grande onore».
Quando parli con lui è difficile non essere travolto da un entusiasmo contagioso, e fa impressione pensare che questo uomo che adora la famiglia e i figli a continui a raccontare storie di solitudine e disperazione «ma anche e soprattutto di redenzione - mi corresse una volta - e poi aggiungerei e il culto del successo e il rapporto padri e figli». Ma poche cose lo entusiasmano come la musica: quando invitai alla Festa del Cinema di Roma Junun, un film concerto sui Radiohead, mi diede soltanto un’indicazione, «alza il volume al massimo, E se ti sembra che sia molto forte alzalo ancora di più».