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 2020  ottobre 26 Lunedì calendario

1QQAFZ11 Cesare Lombroso e Carlo Dossi, due follie parallele

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Attenti a quei due. Sono Cesare Lombroso e Carlo Dossi Pisani. L’alienista, medico, antropologo da una parte e il funzionario, diplomatico e scrittore scapigliato dall’altro. Sulla loro amicizia e sul loro sodalizio si concentra Ombre nella mente, un saggio narrativo scritto a quattro mani dalla storica della lingua Maria Antonietta Grignani e dallo storico della medicina Paolo Mazzarello (Bollati Boringhieri). Due punti di vista che partendo da ambiti lontani convergono in un libro che racconta due biografie parallele convergenti a loro volta in storie e pensieri comuni. È una concatenazione di fatti e di vite. Lombroso è nato a Verona nel 1835, Dossi è nato nel 1849 a Zenevredo, Oltrepò Pavese.
Quando quest’ultimo studia a Pavia giurisprudenza, Lombroso è già una celebrità, professore e direttore di manicomio nella città lombarda, considerato personaggio stravagante da parte dei più e anche dallo stesso giovane Dossi, che ironizza sulle sue teorie a proposito dei pellagrosi. I due destini sembrano allontanarsi: il professore finisce a Pesaro, mentre per il giovane laureato, già perduto per la letteratura, si apre una prima (deludente) carriera romana al ministero degli Esteri, cui rinuncia subito per tornare a Milano. L’umore nero del ventenne Dossi, la sua «sensibilità morbosa» avevano già prodotto L’Altrieri, una rievocazione degli anni puerili dedicata alla «cara mamma» e distribuita agli amici in 200 esemplari. Fin da quella prima prova si mostra la stramberia della sua prosa, un pastiche di lombardismi, di invenzioni lessicali e di rarità letterarie. E due anni dopo, nel 1870, esce un’altra autobiografia, questa volta orientata all’età dell’adolescenza, Vita di Alberto Pisani scritta da C.D., che sin dal titolo denota la (non sempre) divertita tendenza a una dissociazione di personalità. La fatica di vivere, gli amori tribolati, la sensibilità letteraria parzialmente frustrata, il trauma per la precoce morte del padre e la crisi economica che calò sulla famiglia. Nelle Note azzurre, lo zibaldone privato che annota per trent’anni a partire dal 1870, Dossi scriverà: «Sono una America che attende il suo scopritore».
Una svolta nella consapevolezza del proprio male di vivere avviene quando il giovane scrittore si avvicina a L’uomo delinquente di Lombroso, che sin dal suo primo apparire nel 1876 gli si palesa come «una specie di rivelazione». Leggendo quelle pagine sul legame tra criminalità, genio e follia, sulla «pazzia degli eccentrici», sui «tormentatori di sé e degli altri», Dossi trova descritto «matematicamente» il proprio stato di salute, compresa «la ineguaglianza che mi si accentua ogni dì più della pupilla». In questa direzione comincia a interpretare anche le sue «solitarie smidollature», i «melancòlici accasciamenti» e il «suismo venereo». Tra l’altro Dossi, «desideràndola troppo, temeva la donna»: all’amico Luigi Perelli confessa di trovarle «tutte furfanti». La Ester è «splendida oca, malvagia per cretinismo», l’Amelia è «ragazza pulita, che studia l’amore sull’abaco», l’Erminia «fa la ritrosa agli abbracci ma non ai ventagli e alle sciarpe», la Emma è «tra tutte la perversissima e sfacciatissima».
Questo subbuglio interiore, destinato ad acquietarsi solo nel ’92 con il «maritale dovere» impostogli dalle nozze con la ricca ereditiera Carlotta Borsani, lo incanalano verso «notti di ardentissimo coito» puramente intellettuale e «orgie di studio». Ne nasce un romanzo utopico, La colonia felice (1874), frutto di ideali filantropici e di suggestioni illuministe ereditate da Beccaria («Più diminuiscono le pene e più diminuiscono i delitti»): un tentativo letterario, osservano Grignani e Mazzarello, «per certi versi complementare a quello progettato da Lombroso». Se a quell’epoca Dossi prospettava ancora una possibilità di redenzione dalla delinquenza, cambierà idea ben presto proprio sotto l’influsso dell’alienista veronese, che vincolava rigidamente il crimine alle ferree leggi dell’antropologia: così l’edizione 1883 della Colonia si aprirà con una abiura che sarà un omaggio alle teorie dell’amico.
Travolto dal fascino lombrosiano, Dossi inaugura una corrispondenza destinata a durare fino alla morte. Gli studi sul cretinismo ma soprattutto lo sguardo nuovo sui fenomeni psichici abnormi inducono lo scrittore a un rispecchiamento della propria fragilità emotiva nei codici di Lombroso: instabilità e sfiducia nel proprio ingegno, tristezza come «fedelissima amante»… Ogni stato d’animo comincia a iscriversi in una sorta di «tarlo lombrosiano», al punto che Dossi decide di inviare al medico i documenti del proprio malessere per offrirgli materiali di lavoro su un «ingegno eccezionale» e però anche per ottenerne un consulto personale magari anche di ordine terapeutico.
Prende avvio quella Autodiagnosi quotidiana (che verrà pubblicata postuma in volume nel 1984) composta di considerazioni sulle proprie «storture», sulle «tare ereditarie» e le magagne familiari, di segnalazioni sulla nascita prematura, sui sospetti di «idrocefalia cretina» e di «sudicia dispepsia», sul colorito «giallo d’itterica paura», sulla crescita faticosa. Ma soprattutto il materiale si arricchisce di tabelle relative alle giornaliere «funzioni psicofisiche», con registrazioni puntuali dei «rialzi e ribassi dell’animo» e dell’intima «ragionerìa del cèrebro». Si tratta, per Lombroso, di applicare a Dossi la semeiotica clinica dell’atavismo delinquenziale e geniale esposta nei suoi libri. Nel conto di quella «distonia della mente», lo scrittore scapigliato mette anche la «bizzarria» dello stile, i «labirintici giri», l’«involtura del suo periodare».
Si sentiva un imbelle, ma anche se ne compiaceva, raffigurandosi in preda alla «voluttuosa piena della ejaculazione mentale». La domanda a Lombroso è chiara: «Or guarirà il Dossi?». L’autorisposta altrettanto inequivocabile: «C’è da dubitarne». Il legame che si stabilisce è multiplo: alla complicità intellettuale si aggiungevano la collaborazione scientifica e la relazione medico-diagnostica. Lo scapigliato arriva persino a mandare al suo interlocutore un proprio ritratto perché lo scienziato esamini la mimica facciale, la conformazione del cranio, lo sguardo eccetera. E Lombroso vi si getta «come farfalla trastullata sul polline». Fatto sta che la quarta edizione di Genio e follia si gioverà dei contributi del collaboratore-paziente Dossi.
Subentra infine, a sorpresa, il collega di studi. E avviene quando Dossi, a Roma ormai in pianta stabile come alto funzionario degli Esteri, si trovò ad analizzare, sua sponte, i progetti di un concorso per l’erezione di un monumento in memoria di Vittorio Emanuele II. Fra i 300 concorrenti internazionali, Dossi individuò una buona dose di «menti tarate» e dal «quoziente mattòide», che l’aspirazione al successo aveva privato di ogni freno immaginativo. Più precisamente 39 erano decisamente folli, 35 «menti semplicemente cretine» e altre 216 di «ingegno mediocre». Solo sei bozzetti rientravano nella «categoria del genio». Le annotazioni su quella «galleria degli orrori» vennero pubblicate dall’amico Lombroso nel suo Archivio di psichiatria, prima di venire raccolte, nel 1883, in un libretto intitolato I mattoidi al primo concorso…. Era un contributo alle teorie lombrosiane.
Benché Lombroso avesse sempre più l’esigenza di avvalersi dell’amico ben inserito nella politica, i rapporti epistolari tra quei due, ricostruiti su documenti per lo più sconosciuti, finirono per allentarsi, proprio quando, negli ultimi anni, lo scienziato positivista intraprese il cammino verso l’ipnotismo e lo spiritismo. Morì nel 1909, un anno prima dell’amico. Dossi, anche lui partito da posizioni scettiche e materialistiche, sulla soglia della morte si era portato come l’alienista verso interessi medianici. E in questa chiave si sarebbe sigillata la lunga corrispondenza di due uomini a cui la passione analitica per le patologie psichiche aveva risparmiato il precipizio della follia.