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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Ritratto al veleno di Carlo Calenda

Svegliandosi nel caro letto sempre dopo l’onesto villan, il fabbro e la sonante officina, il giovin signore Carlo Calenda chiamò le cucine per il caffè, si concesse un minutino alla doccia, accese twitter, guardò l’ora, ed era solo mezzogiorno. Che fare? Vendere Ferrari negli Emirati arabi l’aveva già fatto. Visitato il mondo, l’aveva visitato con delegazioni d’alto rango. Persino in Confindustria aveva navigato per quattro lunghi anni all’ombra di Luca Cordero di Montezemolo (“che non è un transatlantico” come scrisse un giorno il dispettoso Fortebraccio). E per una manciata di stagioni era pure stato al governo della Repubblica, un mordi e fuggi a velocità psicotropa con Letta junior, Renzi figlio, Gentiloni senior. E ora? Brillò intorno all’ora indolente dell’aperitivo la nuova idea: e candidarsi a sindaco di Roma, perché no?
Così andò il giorno in cui Carletto – per noia e per ennesimo capriccio – si fabbricò in terrazza il nuovo giocattolo della candidatura Capitale. È vero, sino al giorno prima aveva detto cento volte il contrario, “Io sindaco di Roma? Neanche morto, sarei un cialtrone!”. Ma che importa? Tutti in politica disdicono tutto, nessuno scaglia mai la prima pietra, e poi ci si ritrova fraternamente a cena. Lui cucina benissimo. E visto che in corsa per il Campidoglio l’allegra sinistra Dem schiera “i soliti sette nani”, capaci al massimo di un uovo sodo, lui sarebbe diventato Biancaneve in proprio.
In quanto al programma ne aveva uno già pronto, con cuciture rifinite a mano: “Dare rappresentanza al pragmatismo”. E poi? “Decoro urbano, rilancio delle periferie”. E addirittura: “Praticare il buon governo”. A differenza di tutti gli altri che, a suo modo di vedere, promettono il contrario. Fatto il programma, restano le alleanze risolte in una frase: “Il Pd si accontenti”.
L’irrequietezza barba/senza barba
Calenda nasce nella nostalgia onomastica del quartiere africano, anno 1973, che è buona borghesia romana orfana d’impero, ma di urbane maniere a differenza degli arricchiti dei Parioli. Gli scorre il sangue blu della nonna, una Grifeo di Partanna che è nobiltà siciliana, la spensieratezza del padre Fabio, economista non del tutto avveduto, visto che si è fatto fregare il gruzzolo dal celebre truffatore detto il Madoff dei Parioli, e l’estro creativo di sua madre, Cristina Comencini, figlia del grande regista Luigi e regista in proprio. Un mix che lo rende irrequieto anche nella cangiante estetica: magro, grasso, con barba, senza barba, con cravatta, in Lacoste, ma anche in costume da bagno con l’ombelico all’aria e il cigno sullo sfondo.
Il temperamento temerario lo mette in mostra presto, a 16 anni, quando fa il guaio con la segretaria del patrigno, diventa padre affettuoso, smette di frequentare il liceo Mamiani per dedicarsi ai pannolini e a qualche recriminazione di famiglia, all’epoca ancora di estrema sinistra, libertaria, ma a tutto c’è un limite. A risarcimento della nuova vita, si mette in spalla quella vecchia, diplomandosi da privatista per poi iscriversi a Giurisprudenza, fino alla laurea. Per il futuro della bimba, battezzata Tay, vende assicurazioni. Almeno fino al giorno in cui lo adotta professionalmente Luca Cordero che gli fa girare mezzo mondo con il listino delle Ferrari in tasca. È un buon venditore. Addirittura un mastino nelle trattative. Al punto che lo chiama Murdoch, l’imperatore di Sky Mondo, per vendere diritti televisivi in Europa. Ma sentendosi destinato ad alte imprese, si stufa presto. Torna accanto al suo mentore, LCDM, diventato nel frattempo presidente di Confindustria (sì, è successo anche questo nell’anno 2004 dell’era berlusconiana), addetto ai suoi discorsi, tra una trattativa e l’altra, ma anche ai suoi pensieri che saranno l’argenteria del think tank di Italia Futura.
Quando Silvio B manda definitivamente in malora l’Italia e compare il loden salvifico di Mario Monti, Carlo ha una nuova agnizione: finalmente la competenza del grand commis bocconiano invece delle chiacchiere frou-frou della futura Italia. Entra in Scelta civica che è un po’ il Circolo della caccia della politica, in compagnia di Ilaria Borletti Buitoni, Stefania Giannini e altri riccastri. Avventura purtroppo rimasta incompresa. Appena trombato alle elezioni, dichiara: “All’origine del nostro fallimento è la troppa retorica sulla superiorità della società civile”. Per questo si ributta in quella politica, stavolta accomodandosi nel partito democratico che gentilmente lo riaccoglie quando dice: “Ho sempre votato Pd”.
Tra seggi e stipendi alza polvere di talk
Va tre volte al governo in tre governi, sottosegretario allo Sviluppo economico, almeno fino alle dimissioni della titolare, il ministro Federica Guidi, di cui resta memorabile solo la telefonata intercettata col fidanzato faccendiere: “Non puoi trattarmi come una sguattera del Guatemala”. È l’anno 2016. Si occupa di più o meno 150 crisi industriali, dalla ex Ilva a Alitalia, alza polvere e parole. Specialmente nei talk televisivi e sui social che dopo l’equitazione sono diventati il suo sport preferito. Rimasto senza incarichi negli ultimi due governi, si è fatto eleggere in Europa dai Dem. E appena eletto, con seggio e stipendio, li ha mollati per fondare il suo nuovissimo partito Azione. Ringraziamenti alla società politica? Nessuno. “Renzi e Zingaretti sono riformisti rammolliti”. A Di Maio “non affiderei un bar”. Conte “è un avvocato di provincia capitato lì per caso”. Gli italiani sono “inconsapevoli”, anzi “ignoranti”. E “la mia soluzione ardimentosa è far loro dei corsi sulla complessità”.
Probabile che avendo perso ogni principio di realtà, Calenda si vada disponendo all’astio permanente. I Dem forse stavolta l’hanno capita: “Carlo è incompatibile con tutti quelli che non sono lui”, dixit Goffredo Bettini, il guru. E il dettaglio che Giuliano Ferrara, Emma Bonino, Piero Fassino gli augurino ogni fortuna da incoronare in Campidoglio, è il sigillo della sua prossima sconfitta. La accoglierà con un sospiro di compatimento per Roma di nuovo orfana e i romani che si sveglieranno all’alba, proprio mentre lui andrà a coricarsi.