Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2020
Per non dimenticare l’odore dell’amatriciana
ìTutto è successo un paio di anni fa, ben prima del Covid-19. Pare sia stato un viaggio in aereo in cui presi un cortisone nasale per evitare il mal d’orecchi da cabina pressurizzata e discesa rapida. Fatto sta che qualcosa è andato storto. I primi giorni non ci fai caso, anzi attribuisci all’ambiente quegli strani odori che ti assalgono. Poi ti accorgi di una certa sistematicità sospetta. Per due o tre settimane si avvicendano, a rotazione, ora dopo ora, tre effluvi di fondo, come una tappezzeria olfattiva. Nel mio caso, erano dapprima libri vecchi e polverosi; poi gocce di vetiver; infine, immaginatevi di infornare il cartone della pizza a domicilio, e di metterci anche le gocce di vetiver di cui sopra e l’origano, e poi di tenere un pezzo di questo cartone sotto il naso. Finito questo incubo, un calare inesorabile nel grigiore, un affievolirsi dell’odorato, una nebbia aromatica indistinta sempre intorno a me.
Questo per dire che non sono diventato completamente anosmico; sono un iposmico. Non sento alcuni odori di base. Per esempio, se mi fate annusare un batuffolo di cotone impregnato di pino silvestre, e un batuffolo neutro, non li posso distinguere. Ho perso il pino, e chissà se lo ritroverò mai. (Invece la banana e la cannella sono sempre ben vive per il mio naso.)
Ma non finisce qui. Non sentendo alcuni odori di base, non li sento quando entrano a far parte degli odori complessi, che sono la maggior parte. E quindi gli odori complessi – cibo, bevande, escrementi, odori corporei in genere, la pioggia, la città, il bosco, il bucato – sono tutti cambiati. Se volete un’analogia con la vista, immaginatevi delle foto con colori falsi, o delle foto in bianco e nero nelle quali ogni tanto alcune cose hanno il loro colore – che so, tutti gli oggetti gialli, i taxi, i girasoli – il resto degli oggetti è grigio, e il cielo, chissà perché, è viola.
Fare buon viso a cattivo gioco! A partire dal fatto che in alcuni casi il cambiamento è stato per il meglio – discutibilmente. Prendete il caso delle deiezioni corporee, che hanno moltissime componenti olfattive; perderne alcune significa non sentire più il loro odore, ma qualcosa di completamente diverso. Gli odori hanno una forte e immediata valenza emotiva, la nostra reazione all’odore degli escrementi è immediata. Ma la mutazione dell’odore ha l’effetto di separarlo completamente dall’emozione; non fa più schifo, è indifferente o incuriosisce, il termine «puzza» non è più appropriato; lo stesso avviene per gli odori corporei come il sudore. Se questo indubbiamente aiuta in certe situazioni – metrò all’ora di punta in estate – al tempo stesso obbliga a un ri-apprendimento e a un continuo monitorarsi: due docce al giorno, la paura di aver indossato dei vestiti non proprio freschi, stare sempre a distanza.
E poi, il cibo. Anzitutto si deve resistere alla tentazione di mettere la testa nel piatto per annusare la pietanza come farebbe il mio cane, rinunciare quindi a sfruttare quel residuo di odorato che aiuterebbe il necessario godimento alimentare. E poi accorgersi che laddove la percezione non giunge, suppliscono la memoria e l’immaginazione. E che il cibo è molto più che una combinazione sapiente di gusto e odorato, di sapori e aromi. Lavorare dunque sul piccante e sulla tessitura, sulle mescolanze di fresco e di caldo, di morbido e di croccante, annidare il salato nel dolce: insalate con semi e frutta secca, ripieni speziati, piccole bolle di acidità in un lago di dolcezza, soufflé completamente uniformi in cui ogni tanto addentare una sorpresa più consistente, sfoglie tiepide in cui si annida un sorbetto. Eliminare i frullati, che rendono tutto grigio. Alla fine, scoprire molte dimensioni del cibo che lo rendono più ricco e interessante, anche per le persone per cui si cucina.
Se però la memoria a volte ci fa dimenticare che non percepiamo veramente il sapore della pasta all’amatriciana, non per questo riesce a sopperire a tutto. Non c’è memoria che tenga di fronte a un piatto esotico, completamente nuovo – in questo caso siamo come davanti a una foto in bianco e nero di un fiore tropicale, non possiamo intuirne la bellezza cromatica, sappiamo che c’è, ma è per noi inarrivabile, e in quanto tale fonte di immensa frustrazione. Di fronte al piatto nuovo dobbiamo allora fingere, fidarci degli altri, osservare le loro reazioni; come pure ci dobbiamo rivolgere agli altri per verificare se un certo cibo è fresco o no, la vista può sempre ingannarci. Un abisso di incertezza, certo; ma mi spaventa soprattutto la fine della maddalena di Proust, il fatto che non ritroverò più ad aspettarmi, inattesi, odori che spalancano una finestra sul passato, lo riportano vivo al presente.
L’anosmia e l’iposmia hanno una notevole prevalenza nella popolazione; ci sono differenze di età e di etnia, altri fattori come certe patologie entrano in gioco; resta il fatto che una persona su quattro ha o avrà nella sua vita una forte e invalidante perdita di odorato. Ci sono alcune proposte terapeutiche o di rieducazione, non ben convalidate dalla letteratura, set di odori primari in vendita su internet, programmi di annusamento quotidiano per riattivare la memoria olfattiva.
Ma anche chi ha il naso intatto si sarà accorto di qualcosa che cambia nell’ecologia dell’odore; alcuni profumi non sono più commercializzati o hanno cambiato formula, alcuni cibi confezionati non vengono più prodotti (Pin di Esteban, una certa versione dell’olio Essenziale di Patchouli dell’Erbolario, gli Urrà della Saiwa: credo di non star facendo impropriamente pubblicità, visto che per l’appunto quelle varietà merceologiche non esistono più). Se chiudo gli occhi e mi concentro mi sembra ancora di sentirli, la traccia di una traccia; il mio sogno è di scovare in qualche negozio di provincia un paio di confezioni vintage, se ne avete in casa fatemelo sapere.
Manca un cantore dell’anosmia, una fenomenologia di questa condizione diminuita e caso limite, della percezione, che sappia mostrare la sua interna complessità. La fenomenologia dell’estremo, come direbbe il filosofo Jérôme Dokic, ci insegna meglio della norma come siamo fatti e quello che potremmo riuscire a fare; e con ciò stesso contribuisce a creare le condizioni per una dignità della diminuzione, era questo il sospetto che Oliver Sacks era riuscito a instillarci, di una vita ricca perfettamente possibile, anche nell’avversità.