Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2020
L’officina del gene difettoso
Il premio Nobel conferito il 7 ottobre scorso a Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna segna una nuova tappa nell’ingegneria genetica. Non è la prima volta che l’Accademia svedese delle Scienze usa la casella della Chimica per premiare scoperte eminentemente biologiche: il che non significa certo sminuire la chimica, ma piuttosto riconoscere che una delle sue branche più effervescenti è la chimica biologica o biochimica. È naturale che la notizia di questo premio sia stata commentata soprattutto in relazione alle sue molte applicazioni, potenziali o già attuali. Ma la storia del quasi impronunciabile acronimo CRISPR (clustered regularly interspaced short palindromic repeats = gruppi di brevi sequenze palindromiche ripetute) è tutt’altra in origine, ed è assai interessante.
Nel 1993 il giovane microbiologo spagnolo Francisco Mojica scopriva nel genoma di Haloferax mediterranei (un microrganismo Archea che non è propriamente un batterio) una sequenza di DNA assai strana (il primo CRISPR). Dapprima pensò che avesse a che fare con la alta salinità dell’habitat di Haloferax in riva al mare; ma poi nelle banche dati di DNA trovò sequenze simili anche in molti batteri, ed una era identica a quella di un virus batterico. Egli ed altri ipotizzarono allora che i CRISPR fossero implicati in un meccanismo di difesa contro il virus: una straordinaria analogia funzionale con gli enzimi di restrizione che, negli anni settanta, avevano portato alla cosiddetta rivoluzione del DNA ricombinante (la storia si ripete). CRISPR è un sistema complesso: esso produce, insieme con una nucleasi chiamato Cas9, cioè una proteina capace di tagliare la doppia elica del DNA, due sequenze di RNA. Una di queste serve per appaiarsi con squisita specificità al DNA del virus, portando il complesso RNA-Cas9 a legarsi al virus appena infetta il batterio: la nucleasi entra istantaneamente in azione e fa a pezzi il DNA del virus.
Questa scoperta ha avuto sviluppi esplosivi (oggi ci sono più di ventimila pubblicazioni nel cui titolo figura l’acronimo CRISPR). Doudna e Charpentier furono tra i primi a scorgere come un sistema che si è evoluto naturalmente in almeno un miliardo di anni potesse essere ristrutturato in modo tale da divenire uno strumento di raffinata biotecnologia. Hanno fuso i due RNA del CRISPR in uno solo, chiamato «RNA guida»: questo può venire facilmente sintetizzato (al posto dei due RNA originali del CRISPR) mettendo in fila nell’ordine giusto 20 basi, sufficienti per riconoscere una sequenza omologa nel genoma di qualunque organismo. Ad appaiamento avvenuto, la nucleasi Cas9, come un bisturi di precisione ultramicroscopica, taglierà il DNA esattamente dove volevamo. Inattivare un gene è uno strumento prezioso per molti esperimenti in biologia animale e vegetale: riuscire a farlo è divenuto di gran lunga più agevole grazie a CRISPR.
Venendo alle applicazioni in medicina, se una malattia genetica è dovuta ad una mutazione cosiddetta dominante, CRISPR si prospetta come ideale: il gene può essere tagliato ed inattivato, e così la malattia guarita. In molte malattie genetiche occorre invece correggere un gene difettoso: questo richiede qualche attrezzo molecolare in più, ma si può fare, ed in alcuni casi è già stato fatto. Un’attrattiva di questo approccio è che mentre le terapie geniche usate finora introducono il gene normale in cellule che tuttavia hanno ancora il gene difettoso, con CRISPR questo viene letteralmente riparato: sarebbe come se, in una stanza quasi buia, anziché introdurre una torcia elettrica, sostituiamo la lampadina difettosa con una nuova. Tale metodica, chiamata gene editing, è un passo avanti assai significativo nella terapia genica. Per l’uso clinico di questa metodica vi sono requisiti stringenti: occorre portare in modo efficiente, in un numero sufficiente delle cellule giuste, sia CRISPR sia una sequenza di DNA non mutata, evitando al tempo stesso effetti collaterali in altri punti del genoma. Evidentemente si tratta di requisiti non banali: le tecniche necessarie si stanno sviluppando.
Dalla rivoluzione del DNA ricombinante in poi si sono posti problemi etici importanti. C’è ormai consenso unanime che la terapia genica, ivi compreso il gene editing, avendo come scopo la cura di una persona malata, devono ottemperare alle regole imposte per qualunque altro intervento terapeutico: occorrono cioè prove di sicurezza e di efficacia. Si tratta di interventi su cellule del sangue, del fegato, o di altri organi: sono cioè cellule somatiche che appartengono a quella persona soltanto, e nulla hanno a che fare con la riproduzione. Per contro, una manipolazione genetica che coinvolga le cellule della linea germinale (quelle che producono ovociti e spermatozoi), comporterebbe modificazioni trasmissibili ai discendenti, perciò potenzialmente a tutte le generazioni successive. Secondo il punto di vista di molti, me compreso, questa è una zona rossa che almeno per ora non deve essere toccata. Lo ha fatto sciaguratamente all’Università di Shenzhen He Jiankui, un giovane scienziato cinese che ha cercato con la tecnologia CRISPR di modificare un gene in uova umane fecondate in vitro, allo scopo di conferire resistenza al virus HIV. Sono nate dall’utero materno due gemelline, ma i dettagli di questo esperimento, comunicati oralmente a Hong-Kong nel 2018, non sono stati pubblicati. Oggi nessuna rivista scientifica seria accetta di pubblicare uno studio che non abbia preventivamente passato il vaglio di un comitato etico: ed anche questo è un passo avanti.
Dallo studio di un microrganismo arcaico della costa iberica occidentale sono scaturite procedure che sono oggi punta di diamante nella medicina molecolare: chi lo avrebbe pensato trenta anni fa? Diciamo la verità: nessuno. Mi sembra che emergano due lezioni. La prima è che la scienza non conosce confini, né disciplinari né geografici: la tecnologia CRISPR è partita dalla microbiologia – dalla quale già nacque la biologia molecolare; ed ha poi usato brillantemente la potenza euristica della bio-informatica, della genetica, della biochimica. Il Nobel ha consacrato due scienziate di prima grandezza, Emanuelle Charpentier (francese, che ha lavorato in USA, Svezia, Austria e Germania), e Jennifer Doudna in USA; e contributi originali a capire CRISPR sono venuti, da Francisco Mojica in Spagna, da Gilles Vergnaud in Francia, John van der Oost in Olanda, Luciano Marraffini (argentino) e Feng Zhang (cinese) in USA, Jorg Vogel in Germania e in Israele, Sylvain Moineau in Canada, Virginijus Siksnys in Lituania, oltre a molti altri.
La seconda lezione non è nuova ma è importante: tra gli eroi del CRISPR – come in un insolito editoriale li ha chiamati Eric Lander che già nel 2016 fiutava aria di premio Nobel – alcuni erano giovanissimi, e non erano in laboratori famosi. La ricerca può prendere l’avvio da anfratti remoti, esplorare sentieri imprevedibili, fino ad aprirsi su panorami inaspettati. Gli enti che finanziano la ricerca non se ne ricordano abbastanza: preferiscono spesso le strade già asfaltate, la ricerca traslazionale piuttosto che quella originale, ed oggi soprattutto i grandi consorzi di istituzioni importanti. Sarebbe bello che una quota parte dei fondi fosse sempre riservata a progetti innovativi razionalmente formulati da singoli ricercatori, dovunque situati, che hanno avuto una buona idea.