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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Schubert raccontato da Zubin Mehta

Non c’era solo La trota in quel concerto, che sarebbe diventato l’esecuzione più famosa del Quintetto in la maggiore di Franz Schubert: eravamo a Londra, nel 1969. Mi ero appena sposato, venivo direttamente dal viaggio di nozze alle Hawaii. Trentatré anni, ero il più anziano tra i cinque che Daniel Barenboim aveva chiamato a raccolta. Aveva un sogno: trasformare un gruppo di amici in una interpretazione memorabile. Lui stesso, ventiseienne, al pianoforte, Itzhak Perlman, ventiquattro, al violino, Pinchas Zukerman, ventuno, alla viola, la meravigliosa Jacqueline du Pré, ventiquattro, al violoncello, io al contrabbasso. Non avevamo mai suonato tutti insieme. Era il 30 di agosto e debuttavamo alla Queen Elizabeth Hall, di fronte a un pubblico entusiasta. C’era anche un regista con noi, Christopher Nupen, ben deciso a portare per la prima volta dodici telecamere sul palcoscenico e a intitolare poi il film The Trout, sfidando quanti gli dicevano che lo avrebbero scambiato per un documentario sulla pesca.
Fu un concerto irripetibile, così intenso da non aver bisogno di ritocchi sulla registrazione: un’ora di musica perfetta, dove l’amicizia e le note parlavano la stessa lingua, come Schubert adorava. Lui, che aveva composto questo brano a ventidue anni. Eravamo un circolo schubertiano perfetto. Ma appunto non ci fu solo il Quintetto, perché al classicismo viennese avevo voluto accostare il Pierrot lunaire di Schönberg, capolavoro della seconda scuola di Vienna. Prima dell’esecuzione dei 21 Lieder, in tedesco, avevo chiesto all’attrice Vanessa Redgrave di leggere al pubblico la traduzione delle poesie, in inglese. Nel 1969 dirigevo da undici anni. Il contrabbasso non lo studiavo più: era stato lo strumento più veloce per entrare in orchestra e capirla dall’interno. Per quella Trota lo ripresi in mano seriamente, perché Schubert non gli assegna una parte di contorno, e ha una Variazione – sul tema del Lied, da cui il Quintetto prende il nome – che non è affatto facile. Provammo con grande intensità. Tra mille scherzi, fino all’ultimo. Alla generale, ad esempio, quando arrivarono i fotografi, Daniel e io ci scambiammo i posti: lui al contrabbasso, dove suonava un fa tenuto, e io al pianoforte. Così nel disco uscì poi quella fotografia bizzarra. Quello però fu uno scherzo innocuo: peggio avevamo fatto un’altra volta, a un giornalista entrato in camerino mentre eravamo lì noi tre, Daniel, Jacqueline ed io, e che incominciò a farmi domande, pensando di parlare con Barenboim. Nessuno osò smentirlo. Io andai avanti a rispondere, e non solo: a quel punto avevo seduta vicino la du Pré e ne approfittai per farle tenerezze, come si fa a una moglie. No, lì Daniel non gradì...
Schubert per me rimane l’incarnazione dello spirito viennese, il più autentico. Gli altri venivano tutti da fuori: Haydn aveva lavorato soprattutto in Ungheria, Mozart nasce a Salisburgo, Beethoven a Bonn (tedesco a Vienna, da cui poi, durante la guerra, l’alternativa con Hitler, austriaco in Germania). Schubert era più giovane di Beethoven, ma muoiono a un anno di distanza. Schubert ha sofferto per tutta la vita, malato di sifilide, ignorato da editori e potenti. Beethoven vantava molti protettori nell’aristocrazia. Di Schubert, bisognoso, non si è mai accorto. I Lieder venivano eseguiti, ma le ultime grandi Sinfonie no. Perciò non hanno correzioni, dinamiche, ritocchi, che si mettono solo dopo l’ascolto.
A Vienna si raccontava una bella leggenda, sicuramente non vera, ma che mi piace: Schubert va a visitare la tomba di Beethoven e vi trova sopra una penna. La raccoglie e con quella scrive la sua ultima Sinfonia, in do maggiore, “La Grande”. È una leggenda, però esprime la leggerezza e la facilità del suo comporre. Lui aveva perfettamente capito la forma-sonata, ereditata da Haydn. Ma non ha bisogno di regole. Improvvisa, allarga le dimensioni fino a perdersi. Con continue modulazioni, divine. Le sue Sinfonie le ho conosciute suonando in orchestra, col mio maestro di contrabbasso al primo leggio (molto preoccupato che non facessi errori). Allora si eseguivano spesso, a Vienna, insieme con le Messe di Haydn. Le ho messe in disco solo una volta, con la Filarmonica di Israele, negli anni Settanta. E sono stato contento di rompere il lungo silenzio dopo il lockdown proprio con Schubert: a Firenze, con l’Orchestra del Maggio, le stiamo proponendo in integrale, accostate a pagine della seconda scuola di Vienna. Sì, come era successo nel 1969 a Londra: allora Schubert e Schönberg, oggi Schubert e le scene dal Wozzeck di Berg o i Sei pezzi di Webern.
Se vado indietro con la memoria, il primissimo Schubert risale all’infanzia, a Bombay: tutta la grande musica passava dalle mura di casa, dove mio padre, violinista, provava in quartetto. Così incontrai La morte e la fanciulla e tanti altri capolavori. Non passava sera che non andassi a letto senza un disco: Toscanini, Furtwängler, Stokowski, Koussevitzky, grandissimi direttori. Sono cresciuto con la loro musica. Con i loro tempi, sempre giusti. Anche se molto diversi: l’Eroica di Furtwängler è lontanissima da quella di Toscanini, ma entrambe rappresentano un pensiero profondo, dentro la musica.
A diciotto anni andai a studiare a Vienna, il viaggio in nave fino in Italia e poi in treno. Avrei voluto sentire Furtwängler, ma arrivai in ottobre, nel 1954, e a fine novembre lui moriva. Però mi arrivavano tanti racconti su di lui dai miei professori, sulla sua grande umanità e la difesa dei musicisti ebrei di Berlino. Non fu mai nazista. Solo non ebbe la forza di andarsene. Amava troppo la Germania e la sua orchestra, non poteva lasciarle. Piatigorsky, il violoncellista russo che lui aveva sentito in un caffè a Berlino, e aveva scritturato come prima parte dei Filarmonici, lo pregava dall’America di scappare, anche lui. Ma Furtwängler era troppo radicato in quella cultura. Non aveva mai sopportato il giovane Karajan, patrocinano da Göring, che aveva avuto subito un successo incredibile. A un concerto di Toscanini, nel 1930, dove dirigeva l’Eroica con la Filarmonica di New York, per la tappa a Berlino della famosa tournée europea, e con un pubblico alla fine impazzito, lui – seduto nell’ultima fila, accanto a Piatigorsky – aveva pianto.
Quando ebbi l’incarico di direttore principale della Filarmonica di Los Angeles, nel 1962, ritrovai tra i leggii molti che avevano lavorato in Europa con Furtwängler, Nikisch, Klemperer, Bruno Walter. Erano lo specchio di quella grande scuola, io avevo 26 anni. Una mecenate, moglie del proprietario del «Los Angeles Times», patrocinò la costruzione di una nuova sala da concerti: fu un’inaugurazione spettacolare, con Jascha Heifetz, che aveva allora quasi smesso di suonare, e tuttavia accettò di eseguire il Concerto di Beethoven. Tutti scrissero entusiasti della modernità del luogo, carichi di aspettative. Ma non ero soddisfatto della qualità degli strumenti, non di liuteria. Arrivò per destino una donazione: una ricca signora – che generosamente volle restare anonima – ci lasciava per testamento centomila dollari, per cinque anni. Una fortuna. Con la “spalla” della Los Angeles volai in Europa, ben deciso a procurarmi un bottino di Montagnana e Guadagnini. Trovai persino uno Stradivari, che era stato di Kreisler! E tutti costavano incredibilmente poco, rispetto alle quotazioni milionarie di oggi. Ricordo esattamente tutti i prezzi: lo Stradivari a Stoccarda, per 25mila dollari, il violoncello a Losanna, sempre Stradivari, molto raro, per 50mila... Dovevo dirigere un concerto, con Fournier solista in Schumann, il quale accettò ben felice di provarlo. Heifetz era contrario: non si danno gli strumenti di valore agli orchestrali, diceva. Sono come bambini, li rovinano. Io andavo avanti. Trovai una viola Gasparo da Salò per 15mila dollari, un violino Montagnana per 10mila. Così la mia orchestra aveva un nuovo suono. E quegli strumenti sono rimasti, suonati ancora oggi e in dotazione per le generazioni future.
A Londra in quegli stessi anni venne venduto il violoncello Stradivari Davidov, 90mila dollari, e venne donato a Jacqueline du Pré: era il più prezioso di tutti, perché non era mai stato riparato, dal 1712. Una volta, tempo dopo, dirigevo il Concerto di Elgar, solista Yo-Yo Ma. A un certo punto lo sguardo mi cade su un nodo, nel legno, una rosetta che avevo visto tante volte. Era lo strumento di lei, morta nel 1987. «La stai pensando», si accorse Yo-Yo Ma. Non potevo nascondere la commozione: era una musicista speciale, fantasiosa, anche nella tecnica. Basta riascoltare quella Trota: il centro – tra i cinque fuoriclasse – era lei.