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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Il grano tocca prezzi record

Il mondo non ha mai avuto tanta abbondanza di cereali. Ma nonostante i silos pieni, i prezzi volano a livelli record: un rally almeno in parte di origine speculativa, legato anche a forme di accaparramento, che ha già cominciato a tradursi in un rincaro dei generi alimentari e che è particolarmente pericoloso in un periodo come quello attuale, in cui la pandemia da Covid sta mettendo a dura prova l’economia e la stabilità sociale.
Sotto i riflettori c’è soprattutto il grano, che sulla maggiore piazza internazionale, il Chicago Board of Trade (Cbot), si è apprezzato di oltre il 30% dai minimi di giugno per spingersi in questi giorni al record da sei anni (6,36 dollari per bushel). All’Euronext di Parigi per la prima volta dal 2016 il frumento da macina ha superato 210 euro per tonnellata, mentre un’analisi di Coldiretti su dati della Granaria di Milano ha evidenziato proprio ieri che il grano duro, impiegato per la pasta, in un anno è rincarato di quasi il 20%, fino a 28 centesimi al chilo.
Sempre al Cbot intanto anche il mais è in tensione, su valori che non si vedevano da agosto dello scorso anno (il picco è stato di 4,19 dollari/bushel). E ancora di più corrono le quotazioni dei semi di soia, ormai ben oltre la soglia psicologica dei 10 dollari per bushel, al record da quattro anni.
Ad infiammare i prezzi contribuiscono i capricci del clima. Nel caso del grano, ad esempio, c’è una reale preoccupazione per la scarsità di pioggia in alcune aree di produzione chiave, tra cui le regioni meridionali della Russia – Paese che è diventato il primo fornitore al mondo – e le Grandi pianure degli Stati Uniti.
Nell’era del cambiamento climatico, l’allarme meteo è quasi una costante e alla sua influenza non sfuggono nemmeno mais e soia, visto che problemi di siccità vengono segnalati anche in Brasile, in Argentina e nell’area del Mar Nero. Ma le previsioni del tempo non sono l’unica variabile in campo. Ci sono altre dinamiche, di cui è ancora più difficile anticipare l’evoluzione. E ad influenzare il mercato oggi ci sono almeno altri due fenomeni importanti, entrambi di matrice speculativa.
Da un lato c’è l’azione dei fondi di investimento sulle borse dei derivati: negli Usa gli hedge funds a luglio erano in maggioranza esposti al ribasso sul comparto agricolo, mentre ora le posizioni nette lunghe (rialziste) sono al record da aprile 2014, con una forte concentrazione soprattutto sui cereali.
Dall’altro lato ci sono i Paesi che stanno accumulando enormi provviste, per raffreddare i prezzi sul mercato domestico oppure per cautelarsi nel caso in cui il Covid torni a provocare scossoni alla supply chain: una forma di accaparramento su scala globale (attuata anche, ma non solo, dalla Cina) che non solo sta facendo aumentare i prezzi sugli scaffali dei nostri supermercati, ma rischia di aggravare ulteriormente la crisi alimentare nelle regioni più povere del Pianeta. La pandemia ha avuto un impatto pesante anche sulla fame del mondo: per il World Food Programme, appena insignito del premio Nobel per la pace, quest’anno il numero di persone in condizioni di grave insicurezza alimentare è raddoppiato, da 135 milioni nel 2019 a 270 milioni.
Il paradosso è che l’offerta di cereali è davvero ampia, come non era mai stata nella storia. La stagione 2020-21 si secondo la Fao si chiuderà con una produzione mondiale di cereali di 2,762 miliardi di tonnellate, un record storico. Anche le scorte saliranno a livelli da primato: 890 milioni di tonnellate, pari al 31,6% dei consumi attesi.
Nel frattempo la domanda, almeno agli occhi dei consumatori europei, appare tiepida. «Non ci saremmo mai aspettati rincari così forti e rapidi, i fondamentali non sembrerebbero giustificarli – si sorprende Francesco Vacondio, direttore di Molini Industriali – Stiamo andando verso nuovi lockdown, i ristoranti chiudono, non ci sono grandi aspettative nemmeno per le produzioni legate al Natale: non c’è l’umore giusto».
In una situazione del genere è difficile giustificare un aumento dei prezzi sugli scaffali dei supermercati, eppure si rischia di andare proprio in questa direzione. «C’è tanta confusione in questo momento, non si capisce fin dove potrà spingersi il rally – prosegue Vacondio – Per noi è diventato difficile proteggerci dai rischi e sul mercato fisico i fornitori di cereali ormai esitano a vendere».
Le ripercussioni e l’incertezza non sono un problema esclusivamente italiano. Il Food Price Index della Fao è salito dell’8% tra maggio e settembre, trainato proprio dai cereali e dagli oli vegetali. Nei Paesi più poveri si rischiano rivolte del pane, com’è spesso accaduto in passato in periodi di forti rincari dei beni di prima necessità. Le ricadute sull’inflazione potrebbero anche ostacolare le politiche monetarie superespansive necessarie a sorreggere l’economia ai tempi del Covid. Se la Federal Reserve e la Bce si sono ormai liberate le mani, questo non vale per tutte le banche centrali e nei Paesi emergenti, dove il cibo pesa molto nel paniere dell’inflazione, qualcuno ha già dovuto fermare il taglio dei tassi di interesse: è il caso ad esempio dell’India e del Messico.
Anche l’accaparramento dei cereali in parte è figlio della pandemia. La primavera scorsa, quando gran parte del mondo era in lockdown, la logistica è finita nel caos. Procurarsi derrate alimentari è stato più difficile e costoso. Così qualcuno ha pensato di anticipare l’emergere di nuovi problemi.
L’Egitto, primo importatore mondiale di grano, sta comprando a man bassa per incrementare le scorte, seguito a ruota da alcuni altri grandi acquirenti, come l’Algeria. Il Brasile e la Turchia hanno ridotto o cancellato i dazi sulle importazioni di cereali e soia.
La stessa Russia, con il rublo di nuovo in caduta libera, sta valutando di reintrodurre limiti alle esportazioni di grano, come aveva già fatto la primavera scorsa, per non rischiare carenze sul mercato domestico: la sola ipotesi peraltro contribuisce a sostenere le quotazioni sul mercato.
Come sempre però a fare la differenza è la Cina. E tutto lascia pensare che Pechino si sia rimessa ad accumulare riserve strategiche, sia di cereali che di soia, di cui ora ha un maggior fabbisogno visto che sta ricostituendo gli allevamenti di maiali, falcidiati dalla febbre suina (il numero di capi è risalito del 30% secondo il ministero dell’Agricoltura).
Quando il gigante asiatico si muove è impossibile che il mercato rimanga indifferente. E Pechino si sta muovendo con tutto il suo peso: le importazioni di mais nei primi nove mesi di quest’anno hanno raggiunto 6,7 milioni di tonnellate, il massimo da quasi trent’anni secondo il South China Morning Post. Solo a settembre hanno raggiunto la Cina 1,1 milioni di tonnellate di mais, quasi sette volte più che nello stesso mese del 2019, e ci sono già ordini per altri milioni di tonnellate da consegnare nei prossimi mesi, in gran parte dagli Usa, con cui Pechino si era impegnata per un incremento delle importazioni.
Qualcosa di simile sta accadendo con il grano, un cereale di cui storicamente la Cina non è mai stata forte acquirente sui mercati internazionali: le importazioni stanno aumentando al punto che l’Usda prevede che a fine stagione avrà nei suoi silos metà delle scorte mondiali, abbastanza da soddisfare l’intero fabbisogno interno per 15 mesi. Quanto alla soia – di cui la Repubblica popolare è sempre stata il maggiore importatore – i suoi acquisti all’estero secondo l’Usda sono avviati a superare 100 milioni di tonnellate nel 2020-21, un record storico.