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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

A tavola con Marta Dassù

«A contare è la competizione fra Stati Uniti e Cina. Per Washington è importante soprattutto quello che accade nel Pacifico. L’Europa ha la necessità di trovare una nuova identità. La Germania, con la pandemia, si è finalmente convinta a esprimere una leadership continentale: non solo di natura politica, ma anche nell’economia e nelle policy a favore della nuova manifattura post-Covid, con l’accorciamento delle catene globali del valore e la loro regionalizzazione. La Germania ha il dilemma di mantenere i legami industriali e commerciali con la Cina e di rimanere connessa agli Stati Uniti. Questa necessità vale pure per l’Italia. Donald Trump o Joe Biden. Chiunque vinca la corsa alla Casa Bianca il prossimo 3 novembre, l’asse della politica estera americana, in particolare nel confronto con la Cina, non cambierà. Muteranno i toni, le forme e gli strumenti. Ma non la sostanza e gli obiettivi. Come, anche, non cambierà la tendenza degli Stati Uniti a un ripiegamento sulle priorità interne».
Marta Dassù è il riferimento per l’Europa dell’Aspen Institute, dirige la rivista «Aspenia» ed è una dei dieci esperti nominati dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, per scrivere un rapporto su che cosa dovrà diventare l’alleanza atlantica da adesso al 2030. Ci incontriamo nel suo studio, un piccolo appartamento in Via Tartaglia ai Parioli: per caso o per scelta è una strada piena di ambasciate. Spiega Marta: «Quando è cominciato il lockdown, la primavera scorsa, ho deciso che dovevo avere un posto per lavorare. Questa è la casa di mia figlia Chiara, rimasta vuota dopo che si è trasferita a Milano. Ho ordinato un tavolo, una poltrona e una stampante via Amazon e mi sono rifugiata qui».
Marta ha raccontato, in “Mondo privato e altre storie. Taccuino poco diplomatico”, un libretto intimistico pubblicato qualche anno fa da Bollati Boringhieri, l’identità e le contraddizioni di una famiglia borghese, benestante e di sinistra, sospesa fra le convinzioni politiche e il censo, i grandi ideali e piccole cose come gli sport elitari (il golf e il tennis, di cui è stata campionessa italiana juniores): la famiglia della mamma Piera aveva una impresa nella torcitura della seta a Varese, il papà Adelio era un avvocato milanese diventato dirigente industriale. Racconta Marta: «Mia madre era convinta, in qualche anticipo sui tempi, che per sviluppare economicamente l’Italia sarebbe stato necessario valorizzare sul serio le donne. Ancora oggi non è così, basta guardare alle statistiche sul mercato del lavoro». E aggiunge: «Sono stata nel consiglio di amministrazione di Leonardo, dove ho presieduto il comitato di analisi strategica. Adesso sono nei consigli di Falck Renewables e di Trevi Finanziaria Industriale. Sono sempre stata convinta che le imprese debbano ridurre il gap fra uomini e donne: nei salari e nelle posizioni esecutive. Ci sono presidenti donne, ma davvero poche amministratrici delegate».
Nella piccola comunità che a Roma si divide fra i centri studi e la pubblica amministrazione, i consigli di amministrazione delle vecchie partecipate pubbliche e i palazzi del governo, se non sei un maschio – preferibilmente in andropausa avanzata – difficilmente sei legittimato a esistere e soprattutto ad avere un ruolo. Dassù, invece, può piacere o non piacere e può appartenere o no al network di relazioni e di potere di chi la osserva, ma sicuramente esiste.
Non solo lei è la persona che ha sviluppato le attività internazionali dell’Aspen Institute Italia, il think-tank nato negli Stati Uniti e poi fondato anche in Italia nel 1984, con una impostazione bipartisan. Non solo ha provato a sviluppare una sua originale connessione fra geopolitica e psicologia, usata per esempio per interpretare i populismi e i nazionalismi (con Edoardo Campanella, per Bocconi Editore, ha appena pubblicato “L’età della nostalgia. L’emozione che divide l’Occidente”). È stata anche consigliera per la politica estera a Palazzo Chigi di Massimo D’Alema dal 1998 al 2000 («Dopo la caduta del Muro di Berlino, uno dei passaggi più complessi è stata la guerra del Kosovo, D’Alema spiegò alla Casa Bianca che la Serbia di Slobodan Miloševi? avrebbe opposto una dura resistenza, mentre l’amministrazione Clinton pensava sbagliando che il regime si sarebbe arreso subito, dopo i primi bombardamenti») e, nel 2000 e nel 2001, di Giuliano Amato («È acuto, versatile e colto, mi ricorda i migliori professori delle università americane e inglesi»). Quindi, è stata sottosegretaria e poi viceministra degli Esteri nei governi di Mario Monti e di Enrico Letta.
Telefoniamo al bar di Piazza Santiago del Cile e ci facciamo portare a casa una specie di pranzo. Marta mi dice che mangiare non è assolutamente il suo forte. Da ragazza ha avuto dei problemi di anoressia mentale, superati di colpo dopo la sua trasferta a Roma per lavorare al Cespi, il Centro studi di politica internazionale, che allora era espressione del Partito Comunista. È lì che ha cominciato a coltivare la sua passione per la politica internazionale.
«La sostanza della politica estera americana non cambierà radicalmente. Resterà la tendenza a un ripiegamento sui problemi interni: l’epoca della pax americana è conclusa. Di certo muteranno i toni. E verranno rivalutate le alleanze. Ma, per quanto riguarda l’Europa, chiunque arrivi a Washington, l’aspettativa sarà sempre quella che gli europei si prendano maggiori responsabilità, per esempio contribuendo maggiormente alle spese della Nato. Ogni Paese europeo che aderisce al patto atlantico ha preso l’impegno di fare salire, entro il 2024, il budget per la sicurezza e la difesa al 2% del Pil. Questo vale per tutti. Italia inclusa. Noi siamo all’1,43%, quindi ancora lontani, come anche la Spagna e la Germania, da quell’obiettivo. Inoltre, Trump o Biden, resterà invariata la linea americana sulle implicazioni delle nuove infrastrutture tecnologiche con cui la Cina può aumentare la sua penetrazione nei Paesi alleati degli Stati Uniti. Il no sul 5G con dotazione cinese è e rimarrà un no», dice Dassù. Poi, naturalmente, ci sono le soggettive preferenze, che non sono soltanto l’eredità di rapporti consolidati con il campo democratico o con il campo repubblicano, ma che sono anche determinate dalla adesione o dal rifiuto alla brutalità semplificatrice di Donald Trump: «Joe Biden è naturalmente più apprezzato dal PD, che ha tradizionali legami con i Democratici americani. E, a quanto si capisce, Biden sarebbe preferito anche dal Vaticano, che con l’amministrazione Trump, come si è visto con la gelida accoglienza riservata al segretario di Stato Mike Pompeo per la questione cinese, ha non pochi problemi», dice Dassù, che ricorda come, nel 2008, in un convegno organizzato da Aspen Italia a Parigi, uno degli ospiti fu l’allora membro del Congresso Joe Biden.
Arrivano i cestini con il nostro pranzo. Lei prende un piatto di verdure bollite – patate, che poi lascerà, e spinaci. Io, invece, ho soltanto melanzane al forno. Acqua minerale per lei. Un bicchiere di rosso fermo per me. «Se vincesse Biden – nota Dassù – sarebbe ipotizzabile una rivitalizzazione del Wto, in cui una amministrazione democratica potrebbe compiere con gli Stati europei un pressing multilaterale sulla Cina, affinché riveda i sussidi statali a favore dell’industria. Nel commercio internazionale, Biden potrebbe riaprire i negoziati per commerciali con l’Europa, ma va sempre ricordato che la Transatlantic Trade and Investment Partnership è naufragata durante l’amministrazione Obama anche per responsabilità degli europei stessi».
Dassù esprime realismo politico: «Non mi faccio illusioni che in Libia le cose possano cambiare in fretta. L’America non ha intenzione di impegnarsi direttamente e questo indebolisce anche noi, che abbiamo gli interessi energetici che tutti conosciamo e vogliamo bloccare le migrazioni. La Libia è dominata dallo scontro di influenza fra potenze esterne e regionali, Turchia, Russia ed Egitto anzitutto. La Francia gioca una sua partita. Noi siamo e rimarremo in una condizione difficile».
Mangiamo il primo. Lei si è fatta portare dal bar degli spaghetti in bianco, con del parmigiano. Io, invece, dei tagliolini al limone molto anni Ottanta. Dassù ha una visione non convenzionale della politica internazionale. Oggi, per esempio, tutti sostengono che la Cina sia forte, anzi fortissima, anzi resa ancora più forte dal Covid-19. «In realtà – spiega – io sostengo una tesi un po’ diversa. La gestione della prima fase del coronavirus ha mostrato anche i punti deboli del modello cinese. La burocrazia e la gerarchia, l’obbedienza e il culto della segretezza hanno fatto partire in ritardo gli interventi a Wuhan. Hanno ripreso il controllo della situazione con lockdown gestiti come soltanto una realtà autoritaria avrebbe potuto fare. Questo, nelle relazioni internazionali, ha avuto un riflesso. Non a caso le voci filocinesi, in Occidente, hanno perso forza. Questo vale anche da noi. Formazioni politiche come i Cinque Stelle hanno in parte rivisto le loro posizioni. Il memorandum of understanding sulla Via della seta firmato da Italia e Cina, che avrebbe potuto riempirsi di contenuti strategicamente disallineanti rispetto al nostro asse con l’America, è rimasto abbastanza vuoto. Non ci sono stati nuovi grandi deal nelle infrastrutture, nelle banche e nella manifattura italiane».
Nel cestino c’è anche una porzione di torta caprese, che dividiamo. Marta fa i caffè. Decaffeinato il suo. Normale il mio.
Chissà come andranno le elezioni americane. Chissà quando, nell’Italia triste che richiude le sue attività per la seconda ondata della pandemia, potremo tornare a mangiare in un ristorante vicino a Piazza Navona, sede dell’Aspen.