la Repubblica, 25 ottobre 2020
Maradona senza più il nemico Pelé
Che fanno i miti quando invecchiano? Per fortuna, non inciampano più nel passato, né si sfondano con Yesterday, anzi spesso fanno pace con il tempo che gli ha scolorato il grande nemico. Pelé e Diego una volta erano duellanti, si rubavano la gloria, non contenti dell’infinito, oggi sono Pelé&Diego. Un monumento a due facce, dez o diez che dir si voglia, tanto il 10 non glielo toglie nessuno. Né dalla maglia né dalla pagella.
Entrambi scorpioni, entrambi sudamericani, nati a ottobre, tutti e due hanno scelto di tramontare nei loro paesi, Brasile e Argentina. Diego giorni fa ha fatto gli auguri al «Re» che ne compiva 80, vedremo se sarà contraccambiato quando venerdì prossimo sarà lui a festeggiare i 60. Li ha uniti che sono stati condannati a non uscire mai dal campo e che ogni giorno il mondo gli rinfaccia la loro grandezza. Ti ricordi? Hanno smesso di litigare, ma non di farsi ombra, anche se hanno capito che su di loro la luce non si spegnerà mai. Non si combattono più, non cercano di tirar giù l’altro dal piedistallo, nel 2005 hanno fatto una specie di pace, sotto i riflettori si capisce, per esigenze di spettacolo (« La Noche del Diez»). E per somma di dolori: la droga aveva rapito Diego, ma anche Edinho, il primogenito di Pelé. Se Diego da padre aveva dovuto cercare il perdono delle figlie, l’altro l’aveva dovuto concedere da genitore. A nessuno era andata troppo bene, il discredito pubblico era stato assicurato. Della serie: anche i campioni piangono. Tutti e due hanno cercato di sfondare lontano dalla porta: telecronisti, conduttori, ospiti d’onore, ballando ballando. Pelé ha fatto il ministro dello Sport per tre anni, ha criticato il ct Parreira nell’anno in cui il Brasile vinse il Mondiale e ha detto male di Havelange, ex presidente Fifa. Maradona, amico di Castro e di Chávez, ha fatto e manifestato molto di più: ha insultato il presidente Bush («È un assassino»), Blatter, capo delle Fifa («Dittatore a vita e mafioso»), Grondona, presidente federale («È uno stupido», e vai col dito medio), gli arbitri («È calcio, non baseball, ma loro non lo sanno»), più varie risse con i tifosi che gli avevano offeso la madre. E squalifiche in tutti i ruoli. In più Diego ha fatto il ct della nazionale di Messi, senza molti risultati, ma con abbondante folklore, è stato allenatore del Textil Mandiyú, del Racing, dell’Al Wasl, dei Dorados, serie B messicana, e ora è sulla panchina del Gimnasia La Plata, anche perché il Napoli gli ha concesso memoria e riconoscenza, una statuina da presepe, ma non la guida tecnica.
Mentre Pelé si è accomodato nella sua fama, Diego da coach l’ha rischiata sui campi di molti Paesi, senza mai convincere. E ora in Argentina è un santo peccatore da portare in processione, non c’è squadra che prima della partita non prepari per lui un trono dove farlo accomodare. Se O Rei è finito nelle parole di George Best: «Fossi stato brutto non avreste sentito parlare di Pelé», Diego è stato citato nei ringraziamenti all’Oscar dal regista Paolo Sorrentino. Se Pelé mette pace, Diego scava guerre. Entrambi sono stati offesi nel corpo, però sono stati diversamente abili nell’accarezzare il pallone e nel liberarsi dagli avversari. Uno più brasiliano, l’altro più argentino. Per questo si riconoscono: Maradona è scivolato nelle sue inquietudini e in quelle di una città vulcanica, Pelé ha preferito lasciare correre, si è tenuto a galla, senza mai un dribbling sconveniente. I 60 di Diego portano più sperpero, di vita, non di gol e di giocate. Ma se prima si litigavano il mondo, ora si danno la mano. Non hanno perso l’orgoglio, hanno solo capito che la fantasia può essere diversa.