Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Il politologo Rosenthal: «Trump non uscirà di scena»

«Donald Trump continuerà a dominare la scena politica anche se sconfitto. Soprattutto se perderà per un margine ristretto o contesterà l’esito del voto. Gli scenari possibili sono diversi, comprese esplosioni di violenza se qualche milizia armata della supremazia bianca riterrà di aver avuto una specie di mandato alla ribellione contro il ritorno del vecchio establishment. Ma il dato di fondo è che in questi anni il miliardario divenuto presidente non solo ha raso al suolo con la sua rivoluzione populista il partito repubblicano e la sua ideologia, ma ha cambiato le sensibilità della destra: le emozioni al posto delle visioni ideologiche, la mistica del capo, una percezione della realtà sempre più alterata, fino al punto di affidarsi, nella lotta al coronavirus, a una sorta di epidemiologia populista».
Lawrence Rosenthal, direttore del Centro per gli studi sulla Destra politica Usa della University of California, un istituto che lui stesso ha fondato a Berkeley 11 anni fa, ha appena pubblicato negli Stati Uniti un saggio, Empire of Resentment, nel quale disegna la parabola della destra americana dal pragmatismo dei conservatori del Dopoguerra alla svolta liberista e antistatalista di Reagan alla rivoluzione dei Tea Party, all’avvento di Trump.
I Tea Party, che si scatenarono contro Obama, hanno eroso anche le fondamenta del partito repubblicano, aprendo la strada a Trump.
«Sì ma poi il presidente li ha travolti ed è andato in tutt’altra direzione: i Tea Party avevano portato all’estremo l’ideologia conservatrice, ad esempio per quanto riguarda il rigore nella spesa pubblica. Trump, invece, ha fatto esplodere il debito pubblico e ha travolto altri cardini della destra come il free trade, gli stretti legami con gli alleati europei, il confronto duro con la Russia. Lo ha potuto fare perché, avendo capito meglio di altri che oggi gli umori di larghe fasce dell’elettorato sono dominati dal risentimento, è riuscito a imporre il suo populismo e una visione distorta della realtà. Una visione tarata sui convincimenti del capo, grazie alla sua capacità di instaurare un rapporto diretto con gli elettori scavalcando non solo i media, ma anche il partito».
C’è chi parla di pericoli di fascismo in Europa, ma anche negli Usa. Chi traccia paralleli tra Trump e Orbán. Perché secondo lei è eccessivo?
«Perché la democrazia ungherese ha basi meno solide di quella americana, anche se Trump l’ha sicuramente indebolita. Ad esempio legittimando i movimenti dei suprematisti bianchi che sono sempre esistiti, ma non hanno mai avuto un peso politico reale, a parte una breve parentesi degli anni Venti del Novecento. Ora, invece, ce l’hanno».
L’uso di milizie armate rientra nella sua definizione dei canoni del fascismo.
«Trump è riuscito nel capolavoro di essere al tempo stesso il leader del governo e dell’antigoverno. Ha alimentato le fantasie dei gruppi violenti più pericolosi che erano sempre stati tenuti ai margini e ora, invece, si sentono i veri patrioti, paladini di un presidente che invoca la liberazione – lo scrive a caratteri cubitali – di Stati governati dai democratici come il Michigan o la Virginia. Ma Trump è anche un leader umorale, dai comportamenti erratici, che cerca lo spettacolo, non un dittatore che persegue con freddezza un suo disegno ideologico».

Lei è uno studioso del fascismo e spesso la stampa Usa le chiede se Trump somiglia più a Mussolini o a Berlusconi. Lei lo avvicina all’ex primo ministro italiano. Che, però, è sempre rimasto nel quadro istituzionale.
«Ha ragione. Il paragone con Berlusconi riguarda soprattutto l’abilità nell’uso del mezzo televisivo, la capacità di comunicare. E poi gli americani conoscono solo quei due. In realtà psicologicamente per me Trump è più vicino a D’Annunzio. Anche culturalmente, mi passi il paradosso: tutti e due con una grande capacità di suggestionare, di creare un’epica. E tragicamente a digiuno di cultura politica. D’Annunzio andò a sbattere su Mussolini che aveva ben altra forza. Aveva letto Marx e Sorel. Anche lui capace di un rapporto diretto con la gente, anche senza Twitter».
Se Trump è D’Annunzio, c’è un Mussolini in agguato negli Usa?
«Questo è il vero problema. Trump terrà banco ancora per qualche anno, al governo o all’opposizione. Il rischio è che dopo di lui venga qualcuno che la pensa nello stesso modo, ma con una rigidità e convincimenti ideologici molto più forti».
Chi? I leader moderati come Paul Ryan, Marco Rubio e Mitt Romney?
«Mi sembrano scavalcati dalla storia e dalla demolizione del vecchio partito. Nascerà qualche nuovo leader. Io già vedo un paio di candidati all’orizzonte: il giovane e dinamico senatore del Missouri Josh Hawley e il conduttore della Fox Tucker Carlson».