Sette, 23 ottobre 2020
Intervista a Mauro Corona - su "L’ultimo sorso. Vita di Celio" (Mondadori)
«Avevo bisogno di un maestro e ho creato Celio», scrive Mauro Corona nelle Avvertenze che aprono il suo nuovo romanzo, L’ultimo sorso. Vita di Celio (in libreria dal 27 ottobre per Mondadori) racconto autobiografico in senso largo: la vita narrata è la sua, quella di un bambino e poi ragazzo «orfano di genitori viventi», che nell’amico-maestro trova un padre, una madre, un fratello a cui rubare con l’occhio, come si dice di chi vuole imparare un mestiere, ma anche con le orecchie, perché ogni sua lezione, sentenza, aforisma «potava il sentiero del futuro». «Celio è l’esperienza degli amici di ogni risma che mi hanno formato nel bene, e soprattutto nel male, raccolta in un nome solo. Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a ricordare com’è avvenuta la mia formazione», racconta lo scrittore di Erto, luogo fisico e insieme metafora, «siamo sempre in caduta libera, a Erto siamo lì a grattare con le unghie per tenerci in piedi».
A 70 anni, sembra il bilancio di una vita.
«Sì, ne è uscito un bilancio, non vorrei fosse un testamento. Mi sono affezionato a questo libro, mi ha riportato indietro, con dolcezza, alle cose che dovevo ancora capire. Io sono un entusiasta della vita, ma ho momenti di pessimismo cupo. Nel romanzo racconto un episodio: un giorno buttai un legnetto nell’acqua del Vajont, che ancora correva e non era bloccato dalla diga. Vedendolo allontanarsi cercai di riprenderlo, ma la corrente lo trascinava via. Celio mi disse: “Non inseguire ciò che va, cose nuove verranno. Tu fissi l’acqua che scappa? Voltati, e vedrai che ritorna”. È una grande lezione di speranza per uno come me, che si spinge sempre oltre il punto di non ritorno».
Ama l’azzardo?
«La mia disperazione — che potrei imputare furbescamente ai genitori assenti, all’infanzia povera, alla miseria, all’elemosinare, invece non lo farò — mi fa amare il rischio. Quando vado ad arrampicare so che, facendo quel passaggio, potrei morire, eppure è proprio quello a stuzzicarmi. Ho sempre agito come se, dopo quel passo lì, non ci fosse più speranza. Quando ho scritto Nel muro , romanzo criticato malamente dalle donne, sapevo che mi stavo scavando la fossa perché è un libro terribile, eppure anche le cose terribili vanno dette».
Che rischi si prende con questo nuovo libro?
«Qualcuno sentenzierà: ti sei inventato tutto. Lo scrittore messicano Juan Rulfo diceva: “Le uniche parole degne di rimanere sono quelle migliori del silenzio, ma è difficile che le parole la spuntino sul silenzio”. Io qui sto pagando la mia avventura di raccontatore. Ma in fondo aver paura mi piace. Poi mi pento subito, però mi piace andarmela a cercare».
Un verso della poetessa premio Nobel Louise Glück dice: guardiamo la vita una volta sola da bambini, il resto è ricordo.
«È quello che in modo più goffo sostengo da sempre. La chiave della vita è l’infanzia. C’è chi mette a frutto ciò che ha avuto, chi viene devastato, chi si butta via, come ho fatto io, che non ho mai sopportato l’onta di non avere avuto un’infanzia. I miei personaggi sono soli perché io ero orfano con genitori viventi, assenti. Quando tre bambini — io avevo sei anni ed ero il maggiore — vengono abbandonati e non hanno quello che serve per tirare avanti dignitosamente, la loro vita è segnata».
«Ho sempre cercato un riscatto a questo pantano facendo cose che mi portassero alla ribalta: i libri, le scalate estreme, anche le comparsate in tv. Non è vanità, ma dire: ci sono anch’io, ne sono uscito fuori. Da un intellettuale un romanzo te lo aspetti. Ma da uno di Erto che non ha fatto scuole ma il boscaiolo, il manovale, il cavapietre, che si è fatto un po’ di cultura leggendo due camion di libri, no, non te lo aspetti. Allo specchio mi guardo sempre di tre quarti, vorrei nascondere questa faccia che ne ha combinate di tutti i colori, ma c’è una parte di cui sono fiero».
Celio è ossessionato dalla madre. Anche a 65 anni, quando la donna è morta da tempo, le parla, la chiama. È un’ossessione che condivide?
«I miei personaggi sono complicati, difficili, in fondo dei falliti che hanno rinunciato ad avere una vita propria, una famiglia, perché per loro la madre è tutto. Avrei voluto avere mia madre vicino, a costo di fare la fine di Celio. È una mancanza che mi ha sempre fatto male, ma ormai la vedo come una nostalgia buona, una malinconia del passato».
Il titolo del libro richiama le vostre interminabili bevute: «Alziamo il calice della vita e alla morte l’ultimo sorso!».
«È un modo per esorcizzare. Celio sosteneva che anche la morte muore, perché quando moriamo, muore con noi la morte. È una visione incredibile. La morte è come un’ape: quando ti punge, muore con te. Celio aveva visto lontano».
Ha paura di morire?
«Non più di tanto. Infatti me la sono anche cercata. Mi spaventa il dolore fisico».
A 65 anni diceva che non sarebbe arrivato ai 70.
«Mi guardavo in giro e quasi tutti i miei amici del 1950 erano morti, un mosaico in cui l’unghia adunca della morte tirava via una tessera dopo l’altra. Chi ero io per essere risparmiato? Ho aperto gli occhi: non dovevo più perdere tempo».
Promessa mantenuta?
«Come diceva Ernesto Sabato: la vita si scrive in brutta copia e non abbiamo tempo di correggerla e ricopiarla in bella. La gente butta via tanto di quel tempo a lamentarsi. Lavorano, producono, non fanno altro. Non dico di vivere da parassiti, ma fare quello che serve e il resto tempo libero. Ma c’è un contraltare terribile: per il tuo star bene, qualcun altro soffrirà, è la legge del bilancio della vita. La felicità è una cosa che si paga cara».
Nei suoi libri di felicità non si parla mai. Perché questo pudore?
«Preferisco usare contentezza, tranquillità. Io sono contento, però, nonostante la vita mi abbia tirato badilate da sfasciarmi la faccia. Me lo disse Celio: sei rimasto un bambino perché hai ancora speranze».
Il suo look cambia mai?
«Ho capito fin da giovane l’importanza delle apparenze. Per dire una certa cosa, soprattutto in pubblico, bisogna vestirsi bene. Tutta questa perfezione non mi andava così ho scelto la ribellione perché detesto la finzione: magari a casa ne succedono di cotte e di crude, ma fuori bisogna essere come l’upupa, con il ciuffo tirato. Adesso, con un po’ di saggezza in più, poca per la verità, certe cose le eviterei».
Tipo?
«Andare a ritirare i premi sbracciato, con Rigoni Stern che mi diceva: ma non ce l’hai una camicia?».
La lettura è una terapia?
«Mia madre era una lettrice onnivora, quando ci ha abbandonati si è lasciata dietro un cumulo di libri: Guerrae pace, L’idiota, L’uomo che ride . Li ho letti da bambino, non capivo niente ma mi sentivo in compagnia, tra quelle pagine c’era gente che mi aiutava. La lettura è stata la farmacia: sarei già morto se non avessi avuto i libri. È stata la garza che mi ha fasciato le ferite e mi ha fatto venire su dritto, anche se ho la punta storta. Qui in montagna, quando si capisce che un albero sta crescendo storto, gli piantano un paletto accanto e lo fasciano non con la violenza del fil di ferro, ma con la dolcezza della garza».
Se la lettura è farmacia, cos’è la scrittura?
«Non credo a chi dice “scrivo per me stesso”, perché allora potrebbe fare a meno di pubblicare. C’è un po’ di vanità, certo, ma la verità sta in quello che diceva Benjamin Disraeli: “Quando ho voglia di leggere un libro, me ne scrivo uno”. Non era spocchia. Storia di neve , libro molto duro, l’ho scritto perché un testo così non lo trovavo e volevo che accadessero quelle cose. Adesso sto scrivendo un nuovo romanzo in cui due fratelli ottusi danno la caccia a un tizio che gli ha rubato un camoscio per fare il brodo alla madre morente. Quindi il tizio scappa e passa un anno all’aperto, scoprendo, lui che pensava di saperla lunga sulla natura, che invece non sapeva nulla. Scrivere è scoprire cose che non sapevo».
Celio, prima di morire, nel delirio, racconta di aver fondato una clinica per i camosci feriti. Lui che era bracconiere...
«Probabilmente nel suo animo non voleva fare il cacciatore, ma quello doveva essere: per diventare veri uomini qui si doveva essere cacciatori, bevitori, bracconieri. Così, giunto al termine della sua vita, voleva rimediare al male fatto. Anche il personaggio del libro che sto scrivendo è un cacciatore, che però scopre che, nella difficoltà, gli animali gli sono diventati amici, compagni di avventura, dolcezza».
Anche lei amico degli animali?
«Lo sono diventato, io che ho avuto tre processi per bracconaggio».
Cosa le pesa di più dell’invecchiare?
«La diminuzione della memoria, l’alcol me ne ha portata via parecchia. Sono due mesi che non bevo, è una prova ardua. Passo momenti di malinconia feroce, perché manca la sostanza che mi ha tenuto in piedi tutta la vita, ma ho scoperto un Corona che non conoscevo. Ero molto sicuro quando bevevo, ora non lo sono più».
Le piace il Corona nuovo?
«Mi piace perché è quello vero, ma mi fa anche paura perché non ha più il sostegno della finzione. Ho fatto delle conferenze nelle scorse settimane — io le chiamo chiacchiere — e all’inizio ero impacciato, perché di solito mi tengo un paio di bottiglie sul tavolo. Ma mi sono detto: adesso parlo in maniera naturale e bella e dolce. Ed è andata bene».
Cosa l’ha convinta a smettere?
«Vedere soffrire le persone che mi vogliono bene, per esempio i miei figli. E poi come diceva Celio, gran bevitore, il vino fa rimandare sempre le cose all’indomani. E io non voglio più rinviare niente. La sobrietà mi ha fatto riscoprire le piccole cose. Quando Mario Rigoni Stern stava per finire la sua vita, la moglie mi ha raccontato di avergli portato una nuova edizione di un suo libro, fresco di stampa, per gratificarlo. Lui l’ha guardata e le ha detto: Anna, è tutto niente . Questa è una verità che abbraccia l’intero pianeta».
Si fa aiutare da qualcuno?
«Sono stato autodidatta in tutto, ho smesso di bere da solo. Però ogni tanto, di notte, mi vedo circondato da ombre, inquietanti. Esistere è una battaglia».
Tornerà a Cartabianca?
«Bianca Berlinguer mi vuole bene, non è lei che ha deciso di allontanarmi. Ho infastidito qualcuno con le mie intemperanze. Vedremo».
Questa pandemia è «La fine del mondo storto» ?
«Come è accaduto in quel mio libro — in cui avevo previsto un qualcosa che scombussolava l’umanità — anche dopo questa pandemia tornerà tutto come prima. Dovremmo fare spazio al vicino, abdicare al nostro ego, fare la risacca di noi stessi, invece l’uomo è nato per non stare bene, per fare rissa. Mio nonno diceva: sul tetto ci sono tegole rosse, scure, con il muschio, rotte, ma nessuna tiene l’acqua, se la passano l’una con l’altra. Se non cominciamo a passarci l’acqua, la nostra storia finirà male».