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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Intervista a Claudia Rankine

Non lasciarmi sola è il secondo libro di Claudia Rankine a uscire in Italia per 66th&2nd, il primo è stato Citizen, saggio lirico diventato un simbolo del movimento Black Lives Matter, ma in America sono stati pubblicati in ordine inverso, nel 2004 e nel 2014. Quando Citizen vide la luce, nel mezzo delle proteste per l’uccisione dell’adolescente nero Trayvon Martin, era così stranamente tempestivo perché Rankine rifletteva da anni sui temi del razzismo e del lutto. In Non lasciarmi sola per esempio raccontava di un tredicenne processato da adulto per l’omicidio involontario di una bambina con cui giocava, un verdetto difficile da scindere dal colore della sua pelle nera.
«Non lasciarmi sola era una risposta all’11 settembre e all’era Bush – spiega a “la Lettura” Rankine che oggi, domenica 25, partecipa virtualmente al festival Book Pride —. C’era una cultura della paura fomentata dal governo, che criminalizzava i corpi arabi, mediorientali o neri. Volevo che il libro riflettesse su ciò che significa vivere in un Paese diviso dalla mentalità noi-contro-loro, dove i cittadini cercano gente da criminalizzare sulla base dell’aspetto anziché delle azioni».
Questi due libri hanno in comune il sottotitolo: «Una lirica americana». L’ultimo, appena uscito in inglese, «Just Us» («Solo noi») è invece una «conversazione americana».
«Sono passata dal saggio lirico al saggio per parlare di suprematismo bianco in quanto struttura fondativa nella società americana. L’indagine è la stessa, ma, anziché entrare dalla porta della sottomissione dei neri, lo faccio da quella del dominio bianco. L’atmosfera nei tre libri è la stessa: il razzismo nell’America contemporanea».
Il modo di vedere il razzismo è cambiato in questi anni?
«Ci sono le proteste per George Floyd, ma le abbiamo avute anche per Rodney King nel 1992. La differenza è che Donald Trump ha mostrato che il suprematismo è la strategia dominante nella società, è diventato difficile per i bianchi negarlo. C’è il senso che sia necessaria una scelta: tra lo status quo e la condanna dei principi del suprematismo bianco, degli attacchi ai neri, alle minoranze, agli immigrati senza documenti. Però la struttura del Paese, dal sistema giudiziario alle scuole, non è cambiata. Altrimenti non saremmo così in ansia su chi diventa giudice della Corte Suprema o su queste elezioni».
Lei crede nella conversazione come strumento di cambiamento?
«In un certo senso anche le proteste sono una forma di conversazione con la società, benché mettano a rischio le vite delle persone a volte, ma alla fine bisogna sedersi gli uni con gli altri».
La sua prospettiva deriva anche da una particolare esperienza personale: immigrata giamaicana di prima generazione, un marito bianco, una figlia.
«È importante ricordare che non tutti vedono le cose allo stesso modo, la mia voce è una fra tante. Io vedo giorno per giorno il diverso trattamento che riceviamo, mio marito come uomo bianco e io come donna nera. Forse chi ha un partner nero non lo vive quotidianamente. Mia figlia sa quali sono le differenze. C’è chi viene dalla Chiesa nera come James Baldwin, chi dalla Howard University come Ta-Nehisi Coates: ciascuno di noi ha lenti particolari per osservare il paesaggio americano, e ci permettono di comporre pezzi diversi del mosaico».
«Non lasciarmi sola» parla del cancro al seno, che lei ha avuto, di una sorella che perde i figli in un incidente d’auto... Bisogna avere il coraggio di scavare nel personale per essere universali?
«La donna di cui scrivo è la sorella di una cara amica, anche se la chiamo “mia sorella”, perché Non lasciarmi sola è una storia collettiva. Mentre in Just Us , l’io sono effettivamente io, scrivo di conversazioni che ho avuto, in Non lasciarmi sola voglio che l’io sia un raccoglitore collettivo del “paesaggio” dell’aggressione americana, della paura americana e della tolleranza americana. Porto il dialogo nella pagina: diventa fonte di indagine. La conversazione, i cambiamenti nelle relazioni, la reciprocità dei rapporti sono cose che mi interessano molto, perché per me il personale è politico e mi interrogo su come questi momenti ordinari si inseriscano in un processo che continuerà anche dopo la nostra morte. Non è un memoir, non sono interessata alla mia vita in particolare, ma al modo in cui essa espone dinamiche sociali più vaste».

«La parola è un gigantesco fegato che accetta tutto e tutti», lei scrive, tentando di metabolizzare il significato delle cose. Nel libro c’è anche la malattia, l’ansia per la malattia, l’enfasi americana sulle pillole. Come si legano questi temi con l’emergenza Covid-19?
«C’è un tale diniego, da parte del governo, del profondo livello di dolore, di perdita e di lutto che esiste in questo Paese. Se ne nega la fonte stessa, che in parte è il virus, in parte l’incompetenza intenzionale. C’è stata mancanza di preparazione, ma anche di volontà nell’affrontare il problema sin dall’inizio: dal rifiuto di Trump di indossare la mascherina a quello di riconoscere il lutto del Paese».
Il sindaco dell’11 settembre Rudy Giuliani, che allora fu capace di empatia, ora è l’avvocato di Trump.
«Penso che l’attacco al World Trade Center fosse qualcosa con cui poteva identificarsi e provare compassione, perché colpiva l’America delle grandi imprese, prevalentemente bianca. Oggi la maggioranza dei morti sono anziani – lo è anche lui, ti aspetteresti una qualche empatia, ma niente – e le persone di colore con problemi pre-esistenti sono le più vulnerabili, il che crea un immediato senso di distanza tra il Covid e il pubblico americano. Anche se gli eventi di Non lasciarmi sola appartengono all’era Bush, credo che le domande su come si esprima il dolore o cosa significhi sentirsi soli in questa cultura restino rilevanti».
Eppure gli italiani come Giuliani non sono sempre stati «bianchi» in America.
«Quello degli irlandesi e degli italiani brutalizzati dai bianchi anglosassoni che avevano tutto il potere è un passato convenientemente dimenticato. È la prova che la storia non insegna niente alle persone: cercano di far parte del gruppo dominante e, se ci riescono, applicano agli altri lo stesso trattamento usato contro di loro nelle generazioni precedenti».
In che misura i latinos vogliono essere «bianchi»?
«Dipende dal Paese di provenienza, dalle sue politiche razziali e dalla rapidità di assimilazione in America. Ci sono coloro che si identificano come latinos neri o come brown Americans; altri, per esempio molti portoricani, si identificano di più con l’America bianca».
In «Non lasciarmi sola» tra le persone che lei ringrazia c’è Louise Glück.
«Siamo amiche da anni, l’ho conosciuta a 18 anni, sono stata una sua studentessa al Williams College, e continua a essere una mia mentore ora che mi avvicino ai 60. Non pensavo che il Nobel per la Letteratura potesse andare a un americano o a un poeta, ed è stata una gioia vedere riconosciuti sia Louise che il genere, l’importanza della lirica, che privilegia i sentimenti sugli eventi».