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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Intervista a Peter May, che 15 anni fa scrisse "Lockdown"

Londra investita da una pandemia, le strade deserte pattugliate dalla polizia, il primo ministro nell’ospedale di St. Thomas che lotta tra la vita e la morte... Cronaca degli ultimi mesi? No: è la trama di un libro scritto 15 anni fa e rimasto nel cassetto, rifiutato dagli editori perché ritenuto troppo inverosimile. Quando si parla del senno di poi, da adesso bisognerà fare riferimento a Peter May, scrittore scozzese trasferito in Francia, autore nel 2005 di Lockdown, il thriller-profezia che oggi vede finalmente la luce.
È brutto dirlo, ma si sente risarcito dopo tutti questi anni?
«Sì, ma allo stesso modo sarei stato contento se il mio manoscritto non fosse mai stato pubblicato: perché in questo caso non ci sarebbe alcun coronavirus. In termini di pubblicazione, ovviamente, ero rimasto deluso quando venne rifiutato: in quel periodo, fra il 2004 e il 2005, avevo scritto tre libri, tutti respinti».
Quindi non era la prima volta che le succedeva.
«No. Ma il primo libro, Blackhouse, è poi diventato un bestseller mondiale; e così il secondo. L’unico che era rimasto inedito era Lockdown: per essere onesti me ne ero dimenticato, avevo abbandonato l’idea di pubblicarlo. Anche quando è arrivata la pandemia non ci ho pensato, non ho fatto una connessione mentale».
Come se ne è ricordato?
«Qualcuno su Twitter mi ha suggerito di scrivere un thriller sullo sfondo del coronavirus. Allora mi sono detto: un momento, l’ho già fatto! E l’ho ritirato fuori: era un file sul mio computer che era rimasto lì per 15 anni. Non lo avevo letto da allora, mi ricordavo i contorni della storia ma non i dettagli».
L’ha trovato inquietante?
«Sì. Mi sono detto: è proprio quello che sta succedendo! Quando l’ho riletto l’ho trovato orribilmente simile all’oggi».
Come le era venuta l’idea di scrivere un giallo ambientato durante una pandemia?
«La genesi di questo libro risale al 2000. Stavo scrivendo una serie di thriller ambientati in Cina, tranne uno che si svolge negli Usa: avevo avuto l’idea di scrivere un libro nel quale un gruppo di terroristi resuscita l’influenza spagnola e ne fa un’arma biologica. A quell’epoca ho svolto una grande ricerca sull’influenza spagnola, che è ormai fuori dalla memoria vivente: nessuno ricorda cosa successe allora, ma in realtà è incredibilmente simile a ciò che sta accadendo adesso, comprese le due successive ondate. Grazie a quelle ricerche ho capito come funzionano i virus, come si trasmettono. Poi nel 2003 è arrivata la Sars in Cina, stavo ancora scrivendo la mia serie cinese e ho pensato: forse potrebbe essere un’idea scrivere un thriller ambientato in Cina sullo sfondo di un lockdown causato da un virus. Ce l’avevo in testa, ma il mio editore decise di interrompere la serie cinese. Allora mi sono messo a scrivere altre cose».

Perché ha cambiato l’ambientazione e l’ha spostata a Londra?
«Perché non stavo più scrivendo la serie cinese e avevo avuto già due libri rifiutati. Ero alla disperata ricerca di soldi, volevo scrivere un thriller veloce, commerciale e vendibile: così ho scelto un’ambientazione che conoscevo bene, Londra. Sono tornato all’idea di ambientare una storia sullo sfondo di un’epidemia, ho approfondito le ricerche sull’influenza aviaria e ho scoperto tre documenti governativi relativi ai piani di preparazione per una pandemia. Li ho letti e ho visto come scienziati e governi l’avrebbero affrontata: mettendo tutte queste cose assieme e aggiungendo un po’ di immaginazione sono arrivato a scrivere Lockdown».
In realtà, a causa dell’esperienza storica la possibilità di una pandemia è sempre stata sullo sfondo delle nostre esistenze...
«Gli scienziati hanno sempre detto che una pandemia non era questione di se, ma di quando. Sapevano che era inevitabile e ne hanno sempre cercato le possibili fonti: in momenti diversi hanno pensato che potesse essere la Sars o la Mers o l’aviaria, e invece è stato il coronavirus. Ma eravamo preparati, anzi: 15 anni fa eravamo preparati molto meglio di quanto non lo siamo stati adesso, perché capivamo che sarebbe successo e dunque quei documenti erano molto dettagliati. Poi quei piani sono stati abbandonati a causa dei tagli seguiti alla crisi finanziaria: quelle cose sono state considerate un lusso».
Dunque il risultato è che siamo riusciti a farci trovare impreparati?
«Esattamente. Quando guardi la questione in questo modo è del tutto scioccante: è stato un fallimento totale dei governi».
L’elemento che più colpisce del libro è la descrizione di Londra in lockdown. Nessuno pensava che i cittadini avrebbero accettato un tale livello di restrizioni, ma quando è successo la gente non ha protestato.
«La storia e l’esperienza ci dicono che la gente avrebbe reagito in questo modo. Anche durante l’influenza spagnola ci furono i lockdown: la gente è rimasta a casa, le scuole sono state chiuse, le riunioni pubbliche cancellate, in America hanno perfino piazzato guardie armate all’ingresso delle città. Ma quando il virus è arrivato da noi, tra febbraio e marzo, mi pare che i governi occidentali abbiano reagito troppo lentamente, non lo hanno preso abbastanza sul serio, non hanno compreso quanto grave fosse la situazione e come si sarebbe sviluppata. Tutto è arrivato troppo tardi, e quando hanno imposto i lockdown la gente era spaventata: e la paura rende obbedienti. Ma nel corso dell’estate e dell’autunno abbiamo visto accadere l’esatto opposto, hanno allentato le restrizioni troppo in fretta e questo ha portato al risorgere del virus: la gente non ha avuto più paura e dunque c’è una minore accettazione delle restrizioni. Questo è pericoloso. Sono deluso dall’approccio internazionale, i governi sono colpevoli, ci hanno lasciati a terra».
Nel suo romanzo descrive i cambiamenti psicologici, nei comportamenti, causati da una pandemia.
«Il nostro modo di relazionarci è cambiato, forse per sempre. In Francia e in Italia la gente si salutava con baci e abbracci: finito. Mi sembra strano incontrare qualcuno e non stringergli la mano. È un cambiamento fondamentale nel modo in cui le persone interagiscono: è triste, spero che tutto questo non vada perduto. Ora sto scrivendo un nuovo libro e ho dovuto tenere contro di tutto ciò, delle mascherine, dei gel per le mani: è come tenere un diario di ciò che accade».
Un altro elemento notevole nel libro è che all’origine dell’epidemia c’è una bambina cinese: pure questo un anticipo del presente.
«L’ho inserito in parte perché la Sars e la Mers erano emerse in Cina, ma anche perché la ragazza nella storia è stata adottata da un orfanotrofio cinese: la politica del figlio unico in Cina a quel tempo faceva sì che le bambine fossero respinte, gli orfanotrofi in Cina erano pieni di bambine e dunque era possibile per la mia storia che una piccola provenisse da un orfanotrofio cinese e che non ci fosse modo di ripercorrerne le tracce».
E poi c’è il primo ministro che muore... Una profezia davvero inquietante, se si pensa a quello che è successo a Boris Johnson.
«Sono rimasto turbato: non solo c’era il primo ministro vicino alla morte, ma era nello stesso ospedale che avevo descritto nel libro! A quel punto mi sono detto: se muore, daranno la colpa a me! Mi ha dato un brivido: spesso nella mia carriera ho scritto di cose che poi si sono avverate in un modo che mi ha messo a disagio, ma ho sempre scacciato quel pensiero dicendo: è perché faccio tante ricerche... Ma è difficile spiegare il primo ministro e l’ospedale!».

Come giudica la condotta di Johnson?
«Terribile, uno choc. Quando il virus dilagava nell’Italia settentrionale era come un avvertimento per la Gran Bretagna: lo hanno semplicemente ignorato. Hanno incoraggiato la gente ad andare agli eventi sportivi, Boris ha stretto le mani negli ospedali. L’arrivo del coronavirus è stato come uno tsunami al rallentatore: lo abbiamo visto tutti arrivare, è cominciato a Est e si è avvicinato a mano a mano a Ovest. Ma non abbiamo fatto nulla finché non ci ha investiti: è stata colpa dei governi, particolarmente in Gran Bretagna, dove vedevano ciò che succedeva in Europa e non hanno fatto nulla. E quando hanno preso misure draconiane era troppo tardi. Boris pensava a gennaio che avrebbe attraversato quest’anno a passo di danza, diceva che sarebbe stato un grande anno per la Gran Bretagna. A quel livello di potere bisogna capire che con il potere viene la responsabilità: non credo che lui lo capisca».
Lei dice che ha scritto «Lockdown» perché aveva bisogno di soldi. Ma ora ha devoluto i proventi in beneficenza. Perché?
«Mi sentivo a disagio che il libro fosse stato pubblicato solo ora a causa di una vera pandemia. La gente soffriva e moriva, non pensavo che fosse giusto trarre profitto da questo: ecco perché ho deciso di dare tutto il mio anticipo a chi sta lottando in prima linea contro il virus. Mi è sembrata la cosa giusta da fare».