La Lettura, 25 ottobre 2020
Intervista a Hilary Mantel
Un’altra decapitazione. Tommaso Moro, Anna Bolena e ora Thomas Cromwell. Niente che i testi scolastici, le testimonianze del passato e le fiction di oggi non ci abbiano raccontato migliaia di volte. Niente che non appartenga a una consolidata storia europea (con buona pace dei brexiteer), sebbene di Enrico VIII si tendano a ricordare solo le sei mogli. Eppure quella storia Hilary Mantel riesce a farcela toccare. Sempre. Si è posata sulle spalle dei protagonisti e ce ne ha rivelato i pensieri, non solo le azioni. Ha reso il suo racconto – l’ascesa e la caduta di Cromwell – avvincente come un thriller, vivo come una cronaca, fedele come un manuale. Lo ha rinnovato senza stravolgerlo, liberato dalla polvere senza indulgere all’invenzione per restituirgli bellezza e ferocia. Ecco allora Lo specchio e la luce, il romanzo che chiude la trilogia «manteliana» dei Tudor, partita con Wolf Hall e continuata con Anna Bolena, una questione di famiglia, entrambi vincitori del Booker Prize (sorte non toccata al terzo...) e che arriva in libreria per Fazi giovedì 29 ottobre. Un’uscita attesa, preceduta da 750 mila copie vendute nel mondo.
A cosa è dovuto tanto affetto?
(Dame Mantel risponde dalla sua casa nel Devonshire, costa sud dell’Inghilterra; il tempo è clemente) «Al fatto che quella storia riguarda aspetti della condizione umana che tutti conosciamo: amore, potere, ambizione, invidia, vendetta. L’ambientazione è specifica, ma i temi trattati sono senza tempo».
Non è forse per una sorta di revival del romanzo storico?
«Non sono così sicura che si tratti di un revival, per lo meno nella narrativa in lingua inglese. Ma sicuramente il romanzo storico ha più forza rispetto al passato, è salito di rango. Un tempo, almeno in Gran Bretagna, era considerato scadente, commerciale. Quando provai a pubblicarne uno mio, intorno al 1980, fu un fallimento: chi lo riceveva si aspettava un libro di genere (romantico), mentre io proponevo un testo politico, nato da lunghe ricerche. Probabilmente non aiutava nemmeno il fatto che fossi una donna e all’incirca ventenne. Per farmi pubblicare dovetti puntare sul romanzo contemporaneo. Ma volevo tornare al passato».
Perché?
«Sei davanti allo specchio, vedi la tua immagine e sullo sfondo si muovono alcune figure, sfuocate. Inizi a studiare le loro vite e gradualmente diventano nitide, prendono forma, ti parlano».
Anche ora che la trilogia è conclusa?
«Oh sì. E mi aiutano nella drammaturgia di Lo specchio e la luce per il teatro».
Sono modelli per il presente?
«I personaggi del passato vanno valutati per quello che sono stati, non per quello che ci dicono oggi».
Non tutti gli autori la pensano così.
«Io mi sono presa il rischio di presentare una versione scomoda di una vicenda su cui tutti pensano di sapere qualcosa. Volevo eliminare certi errori, strati di disinformazione, liberare la figura di Cromwell da secoli di pregiudizi. Per questo ci ho messo così tanto».
Cromwell (1485-1540), figlio di un fabbro, ministro del re, conte di Essex, gran tessitore della politica di Enrico VIII, riformatore della Chiesa inglese, dovrebbe esserle riconoscente.
«Sì, è vero. Mi piacerebbe che lo pensasse, che dicesse che ho fatto un buon lavoro».
Chi possiede la verità: gli storici o i romanzieri?
«Tutti la possediamo, viviamo nella storia. Storici e romanzieri corrono in parallelo verso il termine dei fatti. Gli storici si fermano lì, mentre gli scrittori possono andare oltre, riempire i vuoti, affrontare aspetti che non entrano in registri e documenti: pensieri, sogni, desideri».
Un rischio.
«I fatti sono spesso molto più interessanti di quello che un autore può inventare. L’arte del romanziere consiste nel dare forma alla propria immaginazione senza distorcere gli accadimenti reali. E rispettare le ambiguità del passato».
Nei suoi libri si percepisce una sorta di indignazione nei confronti di quello che succede alle donne. È come se tutto ruotasse intorno al loro corpo.
«È vero, il problema cruciale del regno di Enrico VIII sta nelle donne e nel loro corpo: le loro concessioni, i rifiuti, il successo o il fallimento come generatrici. Al re serve un figlio maschio e solo una donna può darglielo, ma quale? Sei mogli si avvicendano, due muoiono senza testa. Cromwell viene decapitato il giorno in cui Enrico sposa la quinta. Eppure, nonostante le donne fossero “misurate” in base alla loro capacità riproduttiva, molte erano brillanti, non convenzionali. Per me è stato molto faticoso vivere accanto a loro senza proiettare su quell’epoca le istanze del nostro secolo: la rabbia è loro, non mia».
Sicura?
«Nessuno può chiamarsi fuori dal libro che sta scrivendo, è ovvio. Allo stesso modo penso che un’autrice impegnata a raccontare quel periodo storico possa contare su intuizioni e percezioni che gli scrittori maschi non possiedono. Ma ripeto: ho fatto del mio meglio per tenere separati i due piani. La mia storia personale l’ho scritta in un altro libro (I fantasmi di una vita)».
A proposito di percezione, lei ha detto che italiani, francesi, tedeschi del Seicento consideravano gli inglesi dei tagliagole. Ora? Vi vediamo con le lenti giuste?
«Ormai l’immagine degli inglesi è legata alla Brexit. Ed è terribile per chi di noi vuole disperatamente essere europeo. Forse se si votasse adesso le cose andrebbero diversamente... In ogni caso, credo che i britannici siano visti, anche a causa del loro governo, come un popolo che guarda indietro, consumato dalla nostalgia. Un doloroso stereotipo».
Detto da una persona che scrive prevalentemente del passato...
«Ma quando scrivi un romanzo storico racconti il presente, perché l’autore sa cosa è successo, il lettore lo sa, ma il protagonista no».
È la parte più difficile?
«No, lo scoglio vero è gestire un’immensa massa di informazioni. E scegliere a quali rinunciare».
Servirebbe Cromwell nel Regno Unito di oggi?
«Con le sue doti servirebbe in ogni epoca. Aveva una visione complessiva ma non tralasciava i dettagli, capacità che manca ai politici oggi. Era un politico creativo che trovava soluzioni originali. E sapeva scegliere la sua squadra».
Vede possibili Cromwell nel panorama internazionale?
«No. Anche perché una grande differenza tra allora e oggi è la fede. Viviamo in una società secolarizzata, mentre allora tutti sapevano che dopo la morte avrebbero risposto delle loro azioni davanti a Dio. Cromwell era un uomo di fede che voleva portare la Bibbia – in inglese – tra la gente comune. Si preoccupava dell’anima dei sudditi mentre i politici di oggi pensano solo a gestire i nostri corpi, e nemmeno lo sanno fare bene».
Cromwell è stato il primo brexiteer?
«Al contrario, era il più europeo della corte di Enrico, avendo lavorato in Italia e nei Paesi Bassi. Lo dimostrò portando in sposa a Enrico la tedesca Anna di Clèves (la quarta moglie). Era un buon piano, ma fallì perché il re non trovò un accordo religioso con i principi luterani. In più la nuova consorte non gli piaceva».
Ed ecco il patibolo per Cromwell.
«Più Enrico si ammalava, più perdeva controllo del suo corpo, più diventava imprevedibile, irascibile. Temeva per il futuro, aveva il terrore di lasciare il regno senza eredi. Invalido e pericoloso, cambiava improvvisamente idea, metteva i ministri uno contro l’altro, un gioco al massacro. Da qui la fine di Cromwell, di cui il re si pentì quasi subito dando la colpa ai suoi consiglieri».
Come Trump...
(L’autrice ride ma non commenta).
Dunque meglio un re o una regina, almeno per la Gran Bretagna?
«Né l’uno né l’altra! Meglio senza monarca. È ingiusto per il Paese e ingiusto per il sovrano. Nessuno dovrebbe trovarsi in quella posizione».
Ora che la sua trilogia è finita, la riscriverebbe nello stesso modo?
«La comincerei con le stesse parole. E la concluderei con le stesse parole. Forse sulla strada farei scelte diverse: il processo creativo è misterioso».
È vero che in tempi difficili e crudeli come questo servirebbe un nuovo Shakespeare?
«Abbiamo sempre bisogno di un nuovo Shakespeare».
Quali sono i romanzi storici del passato che più apprezza?
«Il romanzo storico del XIX secolo – e prima ancora – può essere un po’ pesante. Penso a libri che appartengono alla grande letteratura — Guerra e pace ne è uno splendido esempio – ma che richiedono molta pazienza da parte del lettore contemporaneo. Walter Scott? In Gran Bretagna è il venerato padre del romanzo storico. Io lo trovo illeggibile. Comunque: il mio preferito, forse in assoluto, è un romanzo scritto nel XIX secolo e ambientato nel XVIII. È Il ragazzo rapito di Robert Louis Stevenson. Lo lessi per la prima volta a 8-9 anni: per me era la storia perfetta, e lo è ancora: veloce, scorrevole, piena di azione, profonda, cupa, con dialoghi brillanti. Proprio come un romanzo dovrebbe essere».
Preferenze nella narrativa storica del XX e XXI secolo?
«Uno dei titoli che più amo è Il Gattopardo, tra i migliori del XX secolo. È uscito nel 1958, lo stesso anno in cui fu pubblicato uno dei più grandi romanzi d’Africa, Le cose crollano di Chinua Achebe, la voce di un continente. Amo i libri di Barry Unsworth, in particolare Losing Nelson (non tradotto in italiano, ndr), che attraverso la storia dell’ammiraglio Nelson esplora il mito dell’eroe. Dall’America apprezzo il western del 1968 Il Grinta di Charles Portis, con le sue versioni per il cinema: la seconda, del 2010, è la migliore. Penso infine che tutti gli autori di romanzi storici debbano qualcosa a James Gordon Farrell: con L’assedio di Krishnapur ci ha dimostrato come il romanzo storico possa essere solido e saggio senza diventare pesante e solenne».
Come sta vivendo la pandemia?
«Come tutti, con preoccupazione».
Il virus ha influenzato il suo lavoro?
«Sono stata fortunata: Lo specchio e la luce è uscito in Gran Bretagna una settimana prima del lockdown. Ho fatto solo una presentazione a Londra davanti a un vasto pubblico: un intero anno di viaggi è stato cancellato, cosa abbastanza seccante, anche se sono abituata a una vita tranquilla e piuttosto solitaria. Vivo con mio marito in un villaggio sul mare (Budleigh Salterton), piuttosto al sicuro. La mia principale preoccupazione è per il mio impegno sulla versione teatrale di Lo specchio e la luce con l’attore Ben Miles, che ha interpretato Cromwell nelle prime due pièce. Dovevamo fare un lavoro fianco a fianco, lo abbiamo sostituito con le mail, senza sapere quando riapriranno i teatri. Ma siamo pronti e speranzosi».
Davvero non scriverà nessun altro romanzo storico?
«Non comincerò un’altra trilogia – se dovesse impegnarmi quanto Wolf Hall la finirei a ottant’anni suonati. Ma sono piena di idee. Lavorerò ancora per un po’».