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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Su "Lezioni di volo e atterraggio" di Roberto Vecchioni (Einaudi)

Un libro dal quale devi farti proprio portare, questo Lezioni di volo e atterraggio di Roberto Vecchioni. Un libro il cui piano di volo si lascia a sua volta assorbire da risucchi memoriali, salvo riprendere il filo rosso strutturale costituito da quelle specie di lezioni all’aria aperta, quasi a poter meglio respirare il senso della libertà di pensiero, nella volontà di stravolgere le idee preconfezionate, scomporre le apparenze, sondare le possibilità parallele e «guardar fuori, oltre, immaginando dove ha casa la speranza».
Non fai a tempo infatti a mettere a fuoco l’andamento, che subito ti ritrovi in una dimensione altra; e questo si ripete anche successivamente, una volta ripresa la rotta. Accade con i primi quattro capitoli (o racconti, che dir si voglia) nel corso dei quali, cercando di definire quest’opera dalla struttura insolita, consideri l’ipotesi d’un narrare da «romanzo di conversazione». E però in quel conversare rilevi subito un doppio movimento, perché a una direzione che potremmo definire «materiale», ossia il dialogo del professore con i suoi allievi, vedi sottostare una conversazione culturale, propria della creatività e della scrittura: un dialogo con testi quanto mai vari, unificati dal loro rapportarsi a quanto costituisce l’anima del libro: la parola.
Di qui anche la possibilità di definire questo itinerario al tempo stesso terrestre e aereo come viaggio da Socrate a De André. Perché, dopo un prologo affidato direttamente alla voce memoriale d’un ragazzo, ad affacciarsi è il mondo liceale del professor Vecchioni rivisitato nei momenti delle cosiddette «giornate di follia» a passeggio nel Parco Sempione, entrando nel vivo delle parole, partendo da una scelta anche a caso, procedendo per libere associazioni ed entrando dentro essa come storia e come etimologia, e indagando come abbiano variamente costituito momenti centrali della storia del pensiero. Quanto agli alunni, eccoli con onomastica e pure risvolti psicologici sottratti a sette pittrici (dalla Carrara alla Morisot) e a nove pittori (scolasticamente per cognome, da Allegri a Zorzi).

Quanto invece al secondo aspetto, il dialogo avviene con il mondo dei libri, e anche attraverso titoli che giocano con titoli: passando dal Leucò pavesiano alle Metamorfosi nel riflettere di quei ragazzi su mito e verità e mito, paramito e rito (Uomini e topoi); al mondo metamorfico delle parole proprio dei modi di dire nella cui cripticità però «ci trovi l’uomo» (che m’ha ricordato gli ormai classici testi del Fumagalli). In Non di solo pane la ricreazione affidata ai ragazzi d’una sorta di apocrifo, traduce la conversazione in scambio epistolare tra Matteo, Luca e Marco su come passare dalla oralità alla parola scritta per poter «trasformare in questo greco universale che è la koiné, la vita, l’apostolato, la missione divina di Nostro Signore». O ancora nel teatrale Morte di un commesso plagiatore il problema dell’anima passa attraverso Socrate e i dialoghi platonici, e l’approdo alla creatività ricca di commozione umana del Fedone. Che è quanto si ritroverà dopo le intermittenze del cuore consegnate a figure come l’ex professore di francese Léonard Bataille, o Lorca, immagine di chi si è ficcato «nell’amore e nel dolore per non venirne fuori» e ha scelto di «abbracciare il nonsenso e tradurlo in meraviglia di vivere, offrirlo agli altri in eredità per sempre». E, prima ancora, in Alda. Ossia Merini: colei che «ha preso il volo, attraversata dalla poesia», che in lei ha trovato piena assonanza tra parole e cuore e il verso «s’è fatto carne»; qui Vecchioni si muove tra ricordo ed esegesi, vissuta però dall’interno dei suoi incontri con Alda, concluso da «un inedito, che io solo possiedo».
Un racconto, quello di Vecchioni, che rivisita come quelle parole sino lì analizzate nella loro realtà etimologica o nel loro riuso si facciano a loro volta «carne» e «dono». Perché questo è il percorso del libro, nel quale s’affacciano anche ricordi «da bambino» di avventure con la parola: sì «le parole in ciò che sono, che significano, e pure nella loro anche ambiguità polisemica»; ma pure come «le parole divengano parole», ossia emozioni, come si legge nel capitolo ambientato in un trani, un’antica osteria – per certi aspetti più tecnico e con giochi grafici forse un poco insistiti —, con due personaggi straordinari come l’oste Eurimedonte detto Donte e l’ostessa Adalgisa.
Il percorso narrativo s’avvia a conclusione nel segno cronologico della preparazione all’esame di maturità, con una ricerca su De André. Pagine nelle quali si riaccampa un memorabile Bataille già incrociato in un dialogo a due con l’autore (e come un suo doppio) nei momenti di «ora buca» dall’insegnamento, rifugiati dentro un bar, a parlare di come cultura colta e popolare sono vissuti in Francia e in Italia, della tradizione di Béranger e Clément che da noi si deposita nella figura di De André (del quale Bataille si mostra fine esegeta) che, partendo da un testo francese, in La guerra di Piero «trasforma l’idillio in senso tragico». Bataille, ora recuperato alla narratività della conversazione con i ragazzi, pur partendo dalla Antologia di Spoon River, approda al mondo del trobar, ossia a quelle fonti provenzali reinventate da De André, del quale Vecchioni traccia anche un ricordo autobiografico.

Il tutto con altre finestre: come il tema del «doppio» attraverso le reinvenzioni di passi classici da parte dei ragazzi in forma di poesia o racconto (il ritorno di Odisseo rivissuto in aula come recita in Odissea nelle spezie; o la figura di Euriclea come nutrice-madre), o la visionarietà di Zorzi che da traumatizzato vede svolgersi nei minimi particolari i momenti della battaglia di Gettysburg. Nella scrittura, colta e ben dosata nelle aperture al parlato nei momenti più stringatamente dialogici, si accampano non solo figure che restano impresse, ma pure squarci di paesaggio milanese.
E si potrà certo parlare anche di metanarratività e metaletteratura. Il fatto è però che anche gli argomenti tecnici che vi sono affrontati come nel caso della metrica greca calibrata tra Archiloco e Modugno, avvengono all’interno della struttura dialogica di matrice platonica – sottolineata dalle altissime frequenze del «come» (316) e del «perché» (162) —, che in questo caso conclude con «ritmo e toni quali rispecchiamento dell’anima». Non sarà certo un caso che in un censimento delle parole impegnate da Vecchioni in questo romanzo – perché così mi piace chiamarlo – il sostantivo a maggior frequenza è quell’«amore» (75) che non è solo tema di conversazione, ma vivere ciò che si crede, si dice e si fa. Anche se il sottile significato del lavoro sta in quelle cinque parole di Catullo «Fulsere quidam candidi tibi soles», letteralmente «Risplendettero un tempo luminosi per te i giorni», intraducibili nella loro pienezza e in ognuna delle quali «c’è tutto». E nelle quali forse Vecchioni ha sentito di specchiarsi.