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 2020  ottobre 25 Domenica calendario

Il problema dei rifiuti spaziali

Come sarebbe Roma se chi l’ha costruita, nei secoli, si fosse anche premurato di demolirla? Quale cultura avremmo se ogni edificio e tutti gli oggetti realizzati dai nostri antenati fossero stati concepiti per scomparire con loro?
Tutt’altro che fantasioso, il ritorno programmato all’oblio è il destino di ogni infrastruttura spaziale. Compresa la Stazione spaziale internazionale (Iss), l’opera ingegneristica più complessa mai creata dalla mente e dalla collaborazione umana: entro il 2028, attuale data di fine del programma, parte della stazione sarà riutilizzata per costruire la prima base orbitante privata – un progetto che vedrà collaborare la statunitense Axiom con l’italiana Thales Alenia Space —, mentre il resto dovrebbe disintegrarsi in un rientro controllato nell’atmosfera terrestre.
Beninteso, non per una qualche forma di sadismo nei confronti dei posteri, ai quali rischia di essere negata un’incommensurabile eredità identitaria prima ancora che tecnico-scientifica. Lo smantellamento delle infrastrutture extraterrestri risponde a un problema sempre più evidente, quello degli space debris, i detriti spaziali.
Per comprenderne la gravità conviene fare un salto indietro nel tempo: nel 1978, mentre lavora al Johnson Space Center di Houston, l’astrofisico della Nasa, Donald J. Kessler, ipotizza lo scenario che prenderà il suo nome. Secondo la «sindrome di Kessler», la densità dei detriti attorno alla Terra, dovuta all’aumento progressivo delle attività spaziali, potrebbe diventare così alta da impedire a intere generazioni anche solo il lancio di sonde e satelliti. Figurarsi di missioni con equipaggi umani. Moltiplicandosi a causa di collisioni a catena, la spazzatura spaziale finirebbe per costituire una coltre impenetrabile e fuori controllo attorno al nostro pianeta.
Via dalle ipotesi, lo scorso febbraio lo Space Debris Office dell’Agenzia Spaziale Europea ha stimato che gli oltre 5.560 razzi lanciati dal 1957, l’anno del primo Sputnik, hanno seminato poco fuori dall’atmosfera 128 milioni di oggetti più piccoli di un centimetro, 900 mila detriti fino a 10 centimetri e 34 mila frammenti più grossi. È una massa complessiva di oltre 8.400 tonnellate, qualcosa più della Tour Eiffel, che si muove a migliaia di chilometri l’ora.
Un pericolo noto agli amanti della fantascienza – avete presente quello che succede alla stazione spaziale di Sandra Bullock in Gravity? Ma tutt’altro che ipotetico, come ha dimostrato, il 10 febbraio 2009, l’impatto a 789 chilometri dalla Terra fra il satellite russo Kosmos 2251 e quello statunitense Iridium 33, che ha disperso nel vuoto una marea di rottami e qualche miliardo di dollari.
In occasione del ventesimo anniversario della sua abitabilità, il 2 novembre, è doveroso sottolineare che la «vecchia» Iss non andrà ad aggravare la «sindrome di Kessler». Decretato dalla priorità oggi riconosciuta ad altri programmi spaziali – primo: il ritorno sulla Luna – lo smantellamento della Iss anticipa uno scenario che sarà sempre più frequente nei prossimi anni, perché ogni artefatto spaziale dovrà essere concepito per essere distrutto, o allontanato dalla Terra a fine servizio.

Come dicevamo, però, l’esigenza di ridurre l’inquinamento extra-atmosferico implica il rischio di cancellare la memoria della nostra specie nella sua progressiva migrazione verso altri mondi.
Un’utile alleata per ovviare a questa «dimenticanza pianificata» sta rivelandosi l’archeologia spaziale, disciplina interessata tanto al passato quanto al presente.
«I nostri studi non si basano sul comportamento umano in sé; lo mettono in relazione agli oggetti, agli ambienti e ai pattern, ossia alle abitudini che emergono nel tempo», spiega Alice Gorman, docente alla Flinders University e principal investigator del Progetto Archeologico della Stazione Spaziale Internazionale, iniziato nel 2015 e finanziato dall’Australian Research Council. «Un archeologo è interessato a come gli oggetti operano nell’ambito della vita delle persone, non solo dal punto di vista della loro funzione, ma anche per quello che rappresentano socialmente, per quanto raccontano delle credenze e dei valori condivisi, per quello che rivelano della visione del mondo. Se per esempio la Stazione spaziale internazionale fosse stata ideata dagli antichi egizi, avrebbe un aspetto molto diverso, così come differenti sarebbero i manufatti a bordo. Questo è il dettaglio a cui stiamo arrivando».
L’approccio avanguardistico della space archaeology arriva da una ricerca effettuata negli anni Settanta da William Rathje, il primo ad avere applicato indagini archeologiche alla contemporaneità. Nel Tucson Garbage Project, Rathje esaminò la spazzatura dei residenti di Tucson, in Arizona, e mostrò come l’archeologia potesse rivelare quello che sfuggiva ai questionari e alle interviste: in quell’occasione le madri latinoamericane dissero agli intervistatori che preparavano personalmente gli omogeneizzati per i propri neonati, mentre i loro scarti mostravano un numero di vasetti commerciali simile a quello di altri nuclei familiari.
Il punto non era criticare le persone per come scegliessero di nutrire i propri figli (o per come rispondessero agli accademici), ma evidenziare come il desiderio di costruirsi un’identità pubblica positiva da parte dei soggetti di una ricerca potesse entrare in contrasto con il bisogno degli studiosi di ottenere informazioni accurate. Perché solo queste ultime possono essere la base di scelte e orientamenti per il futuro.

«Attraverso migliaia di fotografie stiamo per esempio studiando l’utilizzo dei sacchetti Ziploc sulla Iss – spiega Gorman —: sono semplici contenitori con chiusura a pressione. Tuttavia, da un punto di vista archeologico, il loro uso rivela che gli astronauti tentano di riprodurre gli effetti della gravità, bloccando con il velcro i sacchetti e il loro contenuto in modo da ritrovarli dove li lasciano. Sono questi comportamenti a interessarci di più, quelli di cui nemmeno gli equipaggi sono consapevoli, perché oltre a sedimentare una memoria forniscono informazioni su cosa funzioni meglio a bordo. È attraverso osservazioni di questo tipo che abbiamo anche notato come il comfort e il benessere in orbita, elementi tipici dei primi progetti di habitat spaziale, sulla Iss siano stati sostituiti da un ambiente deputato alla produttività. Osservando che tipo di cose e quali spazi vengono usati, come, quando e da chi, è possibile delineare le caratteristiche e i confini delle società umane».
Quello dello studio archeologico «da remoto» è, per altro, un approccio adattabile anche a insediamenti terrestri in zone impervie o pericolose. Gorman ne suggerisce l’applicabilità a siti come la vetta dell’Everest o gli avamposti scientifici in Antartide.
«L’importanza della space archaeology sta nel suo approccio», aggiunge Dava Newman, docente di Astronautica del programma Apollo presso il Massachusetts Institute of Technology e vice amministratrice della Nasa dal 2015 al 2017. «A differenza dell’archeologia tradizionale, prevalentemente rivolta al passato, quella spaziale si estende al presente e contribuisce a delineare le missioni, gli equipaggiamenti e gli ambienti di domani. La natura precaria delle cose, come la Iss ricorda meravigliosamente, dovrebbe aiutarci a capire che dobbiamo trarne il massimo finché le abbiamo a disposizione. Dev’essere questo motore a spingerci verso la realizzazione di qualcosa di nuovo e migliore».
Qualcosa che dovrà contemplare, fin dalle origini, la propria fine, ma insieme diventare un lascito fondamentale per i posteri. Per questo, che la Iss sia destinata a lasciare tracce di sé, ma senza trasformarsi in un altro residuo orbitante, è questione di consapevolezza: un futuro sgombro da detriti spaziali ma del tutto privo di memoria, non sarebbe comunque auspicabile. Saremmo più arretrati e meno ricchi se non potessimo guardare le piramidi o il Colosseo.