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 2020  ottobre 24 Sabato calendario

Soyinka, il Nobel collezionista

Affrontare un’opera di Wole Soyinka è sempre un’impresa a un tempo ardua e affascinante, perché la profondità e la vastità del suo pensiero cattura il lettore e lo conduce lungo sentieri a volte impervi, perché solo così si può arrivare a comprendere la complessità del mondo. Questa volta, con Al di là dell’estetica Soyinka lo fa partendo da un elemento autobiografico (come peraltro ha fatto altre volte) riguardo al quale si pone anche in modo ironico e critico: il suo essere non solo appassionato, ma anche «collezionista» di arte. Di arte africana, soprattutto. Collezionismo che, per ammissione dello stesso autore, oscilla tra l’amore per gli oggetti e il disturbo psicologico.
Quello di Soyinka è però un caso particolare, perché gli oggetti che raccoglie e che tanto ama, sono i segni di un profondo coinvolgimento religioso, rivolto al culto degli orixas yoruba di cui è un adepto. Partendo da questi oggetti, il premio Nobel per la letteratura, ci accompagna lungo un appassionante cammino che intreccia diversi livelli. Innanzitutto ci mette di fronte all’interrogativo: cos’è l’arte? E soprattutto, esiste un’unica concezione di ciò che chiamiamo arte? Una prospettiva che, vista da un osservatorio particolare come quello africano, conduce a risposte a volte spiazzanti. Ironica e acuta la riflessione a partire dalla Santa Vergine Maria un quadro di Chris Ofili, artista nigeriano, che ha realizzato un dipinto con acrilico, olio, resina, collage di carta e sterco di elefante. «Chi avrebbe mai immaginato che dello sterco di elefante potesse fare furore in una compassata galleria d’arte di New York?» si chiede Soyinka e si lancia in un dettagliato percorso che ci porta a comprendere l’importanza della materia (anche quella organica) in molte religioni africane.
Quegli oggetti materiali, che spesso chiamiamo, con non poco disprezzo, «feticci», reificano le divinità, le rendono materiali. Talmente materiali che le statue o i loro simulacri, veri e propri ricettacoli dell’essenza di ciò che rappresentano, devono essere nutriti. A loro si portano offerte di cibo e bevande, perché rappresentano allusivamente l’immagine del corpo umano. Ma questo oggetto non è solo un rimando al concetto, possiede una sua forza vitale in quanto materia. La materia diventa quindi una componente essenziale per la creazione dei dispositivi simbolici. Questi oggetti non si limitano a rappresentare una relazione tra ciò che sono e ciò che rappresentano, la creano.
Arte africana, ma non solo. Il «viaggio» percorre strade che conducono nei più prestigiosi musei e gallerie europee e americane. La varietà di forme e colori fanno ricordare a Soyinka il caleidoscopio di quando era bambino, di quando in quella combinazione di vetrini colorati vedeva forme sconosciute, che avrebbe poi ritrovato in celebri monumenti come il Taj Mahal e il Big Ben. Come a dire che esiste una sorta di senso comune della forma, che attraversa le diverse culture e fa sì che possiamo riconoscere, al di là dell’estetica, come recita il titolo del libro, lo spirito creativo dell’artista.
Partendo da una «antica» teiera cinese, regalatagli in occasione di un viaggio in Cina, Soyinka riflette su quello che definisce un «falso autentico», per arrivare a mettere in discussione lo stesso concetto di autenticità, tanto caro ai cultori dell’arte occidentale. Infatti, secondo l’autore, non è tanto importante quanto l’oggetto sia autentico, quanto il rapporto che stabilisce con esso, la storia che ispira, pur rendendosi conto del fatto che a volte collezionare è un po’ come rovistare tra i rifiuti. Quando però si stabilisce un rapporto particolare, soprattutto con gli oggetti antichi, che definisce: «un pacato ma pervasivo distillato di materiali, forme e storie, che ci sforziamo invano di isolare e definire ma che continua a sfuggirci, celandosi sotto la comoda categoria dell’«estetica», allora ecco che si ritrova il senso del collezionare. Che va al di là del puro fattore estetico e che Soyinka definisce «artiquariato».
L’arte fornisce all’autore lo spunto per arrivare a discutere di temi che apparentemente sembrano lontani, ma che in realtà sono connessi. Come la distruzione di opere d’arte tradizionale messa in atto da certi fondamentalisti islamici, presi dalla loro furia iconoclasta, che li porta ad attaccare ogni espressione di fede e di bellezza che non rientra nei loro ristretti canoni. Una volontà distruttiva che peraltro Soyinka individua anche in molte sette evangeliche, che hanno avuto larga diffusione in tutta l’Africa. In questo caso l’arte diventa bersaglio di chi non accetta la bellezza e la creatività e soprattutto vuole cancellare la storia e la memoria degli altri, per imporre la sua. «Per il fanatico due è un numero troppo grande» ha scritto Amos Oz ed è proprio questa ottusità che spinge a certi gesti. L’arte diventa poi per Soyinka un’ottima chiave per rileggere anche i movimenti post-indipendenza dell’Africa, i nuovi identitarismi legati alla negritudine e il fiorire di nazionalismi, che hanno cancellato le speranze di molti giovani come lui all’epoca delle indipendenze.
Al di là dell’estetica non è solo un libro sull’arte e sul collezionismo, è un grande esercizio di critica culturale e di rilettura di alcune parti di storia d’Africa, fatta con lucidità e profondità davvero rare.