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 2020  ottobre 24 Sabato calendario

Sull’autobiografia di Gianluigi Gabetti

«Sono nato alle tre del mattino del 29 agosto 1924 mentre il Sole si trovava nella costellazione della Vergine, e mi sembra di ricordare che qualcuno abbia detto che il mio ascendente è Leone. A Torino, via Sacchi, al secondo piano di uno stabile costruito dal nonno Attilio in una zona in quegli anni coperta di prati e dove ora c’è la stazione di Porta Nuova». Inizia così l’autobiografia di Gianluigi Gabetti, quella che chiamava il «librino», niente più, diceva, che un ricordo per i miei nipoti. In realtà, Never give in. Non mollare (edito da L’Artistica Savigliano) è un affascinante esercizio di stile e di gravitas (quella virtù che i Romani tenevano in gran conto, qualcosa di simile alla serietà) come se l’autore, dopo essere stato un protagonista del mondo imprenditoriale, avesse sentito il bisogno di aprire un colloquio con sé stesso con quella lealtà che ha sempre perseguito come un dovere, accanto alla schiettezza nei rapporti con gli altri: «Nella carriera non ho mai dato gomitate perché credo che non sia di buon gusto».
Chi l’ha conosciuto, sa che un suo tratto distintivo era l’understatement sabaudo (o langarolo), quel minimizzare i fatti anche quando descrive i suoi incontri con David Rockefeller o Richard Nixon, lui che è stato definito il Lord protettore della famiglia Agnelli. Ebbene quest’attitudine si ritrova nella pagina scritta e i ricordi si snodano con virile eleganza e asciuttezza per riallacciarsi idealmente ai memorialisti spassionati di secoli addietro.
Com’è noto, Gabetti ha lavorato con Raffaele Mattioli («il più grande banchiere»), con Adriano Olivetti («un monumento dei valori in cui tutti credevamo») e con Gianni Agnelli («la sua curiosità era più vicina a quella di Ulisse, quella che ti porta a conoscere l’ignoto»).
Pagina dopo pagina, il libro pare ora una lezione di vita, ora un piccolo compendio di economia, ora un puro piacere. Gabetti, uomo di indubbio fascino, life trustee del Moma di New York, ha ripercorso almeno cinquant’anni di vita lavorativa passata a stretto contatto con imprenditori che hanno lasciato un’orma; sempre un passo indietro nei rapporti personali, sempre un passo avanti nei consigli riguardanti il lavoro. Fedele a una lezione di Mattioli: la finanza viene sempre dopo l’economia reale, mai prima.
«In un secolo – sta parlando di Mattioli —, come lui ne nascono uno o due. Quando seppe della proposta dell’Ingegnere (Olivetti, ndr), mi chiamò. “Ah, tu sei Gabetti, quello che va con Adriano. Bene. Ma dimmi una cosa. Perché hai scelto di andar via?”. “Perché l’ho incontrato una sola volta e mi ha offerto un programma di lavoro di tre anni. Invece lavoro qui da dodici, e ho l’onore di conoscerla ora che me ne vado”. Esplose in un turpiloquio contro le risorse umane, che non funzionano mai». Da allora, presero l’abitudine di frequentarsi ogni due o tre mesi.
«La sua visione – sta parlando di Adriano Olivetti – sposava l’utopia, che è la forza del sogno, e la razionalità, dovuta alla sua formazione ingegneristica, impregnata di grafica e architettura razionale della scuola del Bauhaus. Fu il design delle macchine per scrivere Olivetti ad aprire per la prima volta le porte dei musei di arte contemporanea al disegno industriale: la materialità del prodotto divenne spunto per la creazione di un nuovo valore artistico. Tra i mandati che l’Ingegnere ci aveva affidato c’era portare un messaggio morale e culturale». L’esperienza newyorkese con l’Olivetti è stato il suo momento più creativo e divertente. A leggere la serata di lancio del Programma 101 (primo desktop computer al mondo) al Waldorf-Astoria condotta da Ruggero Orlando si coglie il grande rammarico per un sogno svanito sulla linea del traguardo: un sogno italiano che stava per sposarsi con l’American dream («Non eravamo pronti per rispondere nei tempi adeguati»).
All’Ifil, Gabetti si era circondato di giovani brillanti, i G Boys, cui Agnelli volle dispensare alcuni consigli: «Mai dare l’impressione di essere stanco: in ogni caso devi lavorare lo stesso, ti credono tutti e tutti lo sanno. Non c’è bisogno di sceneggiate. Mai prendersi troppo sul serio: se vali e fai bene, lo sai da te». La signorilità e il pathos rattenuto con cui Gabetti racconta i suoi rapporti con l’Avvocato, come ha salvato la Fiat dal tentato «golpe» di Giuseppe Morchio, l’introduzione in azienda di Sergio Marchionne e le sofferenze per le rivendicazioni ereditarie di Margherita Agnelli testimoniano quella difficile verità che nasce dalle ferite del tempo.
La casa avita di Gabetti si trova a Murazzano, nell’Alta Langa (dove è sepolto). Sono nato a un tiro di schioppo da quella specie di castello che si chiama Cassadò. Sarà per questo che negli ultimi anni ha voluto regalarmi sapienza e amicizia. Gli piaceva parlare in dialetto. Una sera, in una piola di Belvedere, a metà strada fra Dogliani e Murazzano, dopo aver raccontato di New York, della casa di East Hampton, del tavolo riservato al Four Seasons («per l’Olivetti non per me»), aveva accennato a un disturbo notturno a una gamba e chiese come si dicesse crampo in dialetto. Risposi «tiranerv». Ripeté la parola tre o quattro volte, divertito, quasi mosso da un ricordo lontano, come la magica «rosebud» di Citizen Kane.