Corriere della Sera, 24 ottobre 2020
Russia e Ucraina litigano sulla zuppa
È la solita zuppa, ucraini contro russi. Ma che zuppa! La preferita di Brezhnev, che cacciava i cuochi del Cremlino e chiamava la sua Viktorja, perché nessuno la sapeva preparare meglio. La più amata da Bulgakov: l’ordinava in una taverna di Kiev e poi osservava pensieroso la tazza, profetizzando somigliasse a una spremuta di sangue.
Sangue? Ma no, «non ci sarà nessuna guerra», è cauto Oleksandr Tkachenko, ministro alla Cultura d’un governo ucraino che ha ben altre ostilità aperte con Mosca, però è chiaro che «i russi non possono riscrivere la storia come sempre» e, insomma, è venuto il momento di chiarire che cosa bolle in pentola: il borsch, la famosa broda rossa che perfino un ucraino come Bulgakov attribuiva ai russi e che tutto il mondo considera roba loro, nossignori, niente russi, è un’opera dell’ingegno culinario ucraino. L’offensiva è già partita. E il ministro della minestra ha convocato gli chef di 25 regioni ucraine, comparato 5 litri di borsch in tutte le declinazioni e preparato un pepato dossier da presentare all’Unesco. Giù i mestoli, è la tesi, l’Onu riconosca finalmente le ragioni ucraine almeno in cucina. E non col solito brodino caldo degli attestati di stima, ma con una vera denominazione d’origine controllata: alla pari dei tacos messicani e della dieta mediterranea, «il borsch è un patrimonio intangibile dell’umanità».
Papille & scintille. La disfida delle pignatte, simile a quella sull’hummus fra Libano e Israele o sul tokaji fra Italia e Ungheria, nasce da un imprudente tweet dell’anno scorso. Quando il ministero degli Esteri di Mosca, postando una bella pentola fumante, elogiò «uno dei piatti russi più amati». Fuoco e fiamme si scatenarono in pochi minuti: «Come non bastasse il furto della Crimea e del Donbass, volete prendervi anche il borsch?».
Il rancore viene da lontano: mentre la spaventosa carestia dell’holodomor sterminava gli ucraini, anni ‘30, fu Stalin a inserire il borsch fra i cento piatti irrinunciabili del buon sovietico. E in effetti oggi sarebbero in molti a rivendicare la secchia rapita, perché la specialità viene dai protoslavi, il nome è yiddish, ha 5 ingredienti facili – patate, cavolo, cipolla, carota, barbabietole – e da secoli si trova un po’ ovunque: dalla Polonia alla Lituania, dalla Romania alla Germania, e in varie versioni (con panna, funghi, uova, verdure, mele, sangue di cinghiale…) sobbolle pure in Cina e fra gli ebrei newyorkesi, in Finlandia e nell’Artico.
Dicono le massaie di Kiev che se in tavola non c’è il borsch, è come se non ci fosse niente. Ammettono anche i russi che il migliore si mangia in Ucraina. E pure l’archeologia si mette di mezzo: «In alcuni siti sul Mar Nero – è sicuro lo chef Ievgen Klopotenko, ristorante a pochi passi da Maidan – hanno scoperto tracce di borsch del primo millennio». All’Unesco spiegano che ci vorrà tempo, per decidere. A Kiev aspettano fiduciosi e senza paure: «Putin ci ha già dichiarato una guerra vera – ride Klopotenko – che cosa può farci di peggio?».