Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 24 Sabato calendario

Consigli agli studenti da Roberto Vecchioni

«Ahi Velasquez, dove porti la mia vita?
Un fiore di campo si è impigliato fra le dita»: dove va la vita delle ragazze e dei ragazzi, giovani fiori di campo che oggi tra mille difficoltà continuano a frequentare il presidio della civiltà, la scuola? Dove li conducono quei navigatori della vita che vengono subito dopo i genitori per importanza, i professori? C’è un libro pieno di passione che racconta un’esperienza molto bella: si intitola Lezioni di volo e di atterraggio (Einaudi) e l’ha scritto uno dei professori più famosi del nostro Paese, uno che l’insegnamento non l’ha mai abbandonato anche se avrebbe potuto farlo, uno che la fama l’ha raggiunta per un altro motivo, le sue canzoni, unico tra i famosi “cantautori” degli anni ’70 a vincere anche Sanremo nel 2011. Roberto Vecchioni, 77 anni che non gli daresti mai. Il suo eterno sigaro che accenderà solo dopo un’ora di una conversazione da cui riesci a capire molte cose, sulla scuola certo, ma anche su di lui e sul mondo. Su quel qualcosa che «forse non lo sai ma pure questo è amore».
Come è nata l’idea di scrivere questo libro?
«Avevo voglia da tanto tempo di raccontare la schola come divertimento perché in effetti nasce così: in greco
scholè significa avere tempo libero, divertirsi, avere piacere di quello che fai. Le lezioni di cui si parla e che chiamavamo “Ore di follia”, risalgono al 1987, un anno prima rispetto all’uscita de L’attimo fuggente. Sono divise in due parti: quella del “volo” e quella dell’“atterraggio”.
Naturalmente i momenti di atterraggio sono molti di più perché la scuola non è fatta soltanto di stravaganze: ci sono i programmi, i momenti dogmatici, molte cose burocratiche che non piacciono né agli studenti né ai professori. Però all’interno di tutto questo puoi prenderti alcuni momenti e rivoltare la scuola, trasformarla per fare qualcosa che assomigli alla vita. E per farlo devi portare i ragazzi fuori: parchi, cascine, case, posti silenziosi. Una volta persino al cimitero!».
Di che cosa parlavate?
«Si partiva da un argomento e poi si andava avanti utilizzando gli spunti che nascevano da lì e ci portavano in posti molto diversi. Ci divertivamo a cambiare le storie dei personaggi, oppure si provava a rifare i classici come l’Odissea e una volta persino i Vangeli. Era una maniera di penetrare la cultura e farla propria. Credo che il momento più bello per i ragazzi consistesse nel capire il significato della cultura partendo dalla fantasia».
Perché ha chiamato i ragazzi come pittori?
«Perché dipingono la vita a somiglianza del loro io: c’è chi lo fa realisticamente, chi simbolicamente, chi fa il cubista. Ognuno ha una specialità pittorica. Questo significa dargli una personalità, dire che sa esprimere le cose che sente e quindi essere il facitore della propria vita».
E come mai le chiamava “giornate di follia”?
«Mah, in realtà non erano poi così folli. Però, certo, si differenziavano dall’ordinario. Anche se alcuni le potevano vedere come una sfida all’ordine costituito, per me il senso della cultura non è sapere, è cercare: comprendere come tutto si intersechi ed essere capaci di fare i collegamenti. È l’insegnamento di Lévi-Strauss, di Ferdinand de Saussure. E, tra l’altro, fatto non secondario, nel fare questo ci divertivamo come pazzi».
Nel libro ci sono vari esempi di queste giornate…
«Esatto. Erano di due tipi: o veramente libere per cui si partiva da un termine e da lì si viaggiava oppure una settimana prima suggerivo io un tema e gli studenti tiravano fuori le loro idee. Per esempio, una volta gli ho chiesto di riscrivere i Vangeli come se gli evangelisti fossero loro ed è venuta fuori una discussione stupenda.
Questa prospettiva cambiava tutto e riusciva a rendere interessanti cose che apparentemente non lo erano».
I ragazzi protagonisti del libro con cui intesse questi dialoghi sono persone specifiche o rappresentano una sorta di sunto dei vari studenti che ha avuto?
«Sono una summa di vari caratteri. Ognuno di loro porta il nome di un pittore o di una pittrice e nascosti nel testo ci sono dei riferimenti ad esso: ci sono la de Lempicka, la Kahlo, la Gentileschi, Sanzio, Vecellio, il Merisi che, per esempio, ha un’attitudine focosa che rimanda al Caravaggio e così via. Poi ci sono vari sottotesti: uno è che in realtà in questo romanzo-saggio ci sono due me. Il primo sono io giovane, a trent’anni, e lo si capisce perché parlo in prima persona, ma l’altro “io” è il professor Bataille. Ovvero me da anziano. L’essenza del concetto di “giornata di follia” la distilliamo proprio noi due in un dialogo al Bar Kunin, passando dai canti anarchici alla canzone napoletana, a quella di De André e a Rimbaud. È una visione mitica, prometeica della vita. In Eschilo, Prometeo dice al corifeo: “Io ho tolto agli uomini la paura della morte inserendo nel loro cuore speranze cieche”.
Ovvero: “Vi ho fatti ciechi per la speranza”. Gli uomini non immaginano la morte perché abbiamo delle cose che ci distolgono da quel pensiero».
Quali sono queste cose?
«Il lavoro, l’arte, i figli, l’amore. Tutto ciò è un bellissimo dono divino per dimenticare che dobbiamo morire».
Ma per lei è cambiata la scuola dai tempi in cui ambienta il suo libro a oggi?
«Moltissimo. Anche se gli insegnanti italiani, parlo delle materie umanistiche, erano e sono tra i migliori del mondo. Del resto hanno un passato a cui attingere che in altri posti non c’è. Gli antichi greci hanno già detto tutto e sono vivissimi anche oggi. Parlando di professori, invece, ce ne sono tre tipi: quelli autoritari per cui le cose sono come dicono loro e basta. Lo studente non può e non deve dire niente. Poi ci sono quelli autorevoli, a cui i ragazzi danno credito perché dimostrano con la loro vita la coerenza con quel che dicono. La terza categoria è quella degli sfigati, che è quella di cui i ragazzi si accorgono subito, che si fa mettere i piedi addosso.
Carducci era del primo tipo: era severissimo, sparava sulle farfalle, contava quello che diceva lui e basta. Pascoli invece era una persona dolce, nonostante avesse avuto una vita difficile, e i suoi studenti lo amavano perché aveva la capacità di farsi capire. Io ho girato moltissime scuole e ho trovato quasi sempre insegnanti bravi e, soprattutto, attentissimi ai ragazzi».
E gli studenti sono cambiati?
«Certo. Non sono più quelli degli anni ’70 che nei miei ricordi sono rimasti forse i più curiosi di tutti. Ma forse a un certo punto ero io che ero stanco, anche perché la musica continuava a impegnarmi molto. Ho fatto 37 anni di liceo senza perdere quasi mai una lezione, solo una volta ho chiesto un anno sabbatico. Io tutte le mattine ero in classe: tutti i miei presidi possono confermarlo».
A proposito di musica, sta per uscire dopo molti anni, il suo disco “perduto”, Montecristo…
«Ha fatto tutto la casa discografica. Questo disco in effetti era uscito dal mercato a causa di una disputa tra due case discografiche, infatti era introvabile e le poche copie che ci sono in giro valgono un sacco di soldi. Adesso lo stanno per ripubblicare, sì… Tra l’altro raccontava proprio una situazione di prigionia, un periodo in cui io avevo una grande tristezza addosso perché il rapporto con la mia prima moglie stava distruggendosi».
Quel disco aveva una splendida copertina di Andrea Pazienza che fu anche censurata…
«Sì, perché c’è un mio nudo, che poi non sono neppure io, ma il mio produttore Michelangelo Romano. Andrea era così: gli dicevi di fare una cosa e lui tornava con tutt’altro, ma, siccome era sempre splendido quello che faceva, lo prendevi così».
L’insegnamento non ha tolto tempo alla musica?
«No. Io sono innamorato dell’insegnamento: vedere un ragazzo che apre la bocca per la meraviglia o che ti guarda sbarrando gli occhi come per dire “Questa cosa è bellissima, non la sapevo!” è un regalo fantastico. Tutte le volte che entravo a scuola pensavo: “Adesso tu entri là e, se tra quattro ore non sei distrutto, spaccato che non ce la fai a sentir più una parola, non hai fatto quello che dovevi fare!”. Ed era così perché in quell’aula stavi trasformando il mondo: lo sentivi tu e lo sentivano loro. Era bellissimo».