L’ho scoperta su Instagram. Non è giovane di età, ma ha tutti i colpi: scienziata (è biologa marina), talentuosa, attivista per l’ambiente e quindi per una buona causa… Mi piacerebbe raccontare la sua storia».
Parole che confermano ciò che in fondo sappiamo già: “bambina ribelle” non è una qualifica anagrafica, è una categoria dell’anima. Inventata da Favilli insieme alla ex partner Francesca Cavallo, poi uscita dal progetto: un’intuizione che ha generato un marchio editoriale e multimediale di successo che spazia tra libri, eventi web, podcast. La factory è nata nel 2016 in California, dove Elena risiede da tempo — anche se in queste settimane è in Italia — e ha il suo cuore nella serie di libri per l’infanzia Storie della buonanotte per bambine ribelli, sei milioni di copie vendute a livello globale. Il terzo volume è in uscita per Mondadori. È il primo firmato solo da Favilli. E il primo tutto dedicato, come recita il sottotitolo, alle 100 donne migranti che hanno cambiato il mondo. Alla faccia di Trump e sovranismi vari. La formula è quella consueta: una raccolta di minibiografie illustrate.
Elena, perché stavolta si è concentrata su protagoniste decise, o costrette, ad espatriare?
«Io e la mia squadra — donne e uomini di città diverse, da Londra a Los Angeles — volevamo un’idea forte, per questo terzo capitolo. Abbiamo formulato varie ipotesi di filo conduttore, ma era quello delle migranti che continuava a frullarmi in testa. A spingermi alla decisione finale è stata la foto terribile della bambina del Guatemala morta nel fiume insieme al padre mentre cercava di emigrare, diventata virale. Quando l’ho vista la prima volta mi è sembrata così assurda, nella sua crudezza e violenza, che quasi non volevo crederci: due corpi senza vita, a testa in giù, nell’acqua. Allora ho capito che per dialogare davvero con il nostro tempo il libro non poteva non tenere conto di realtà come quella».
Molte biografie di migranti che lei racconta sono, diciamo così, “classiche”: ad esempio la giovane attivista siriana Bana Alabed giunta in Turchia o Lupe Gonzalo, contadina e sindacalista arrivata negli Usa dal Centroamerica. Ma ci sono anche storie di lusso e senza shock culturali: come Anna Wintour che va dal Regno Unito agli Usa. Come mai?
«Il mio è un libro per bambini, in cui la trasversalità è un valore. Certo, alcuni possono sembrare accostamenti improbabili: non vedremo mai Wintour accanto alla ragazza siriana. Ma ci tenevo a dare conto della varietà delle forme della migrazione. Una radice, però, resta comune: il desiderio di libertà che spinge a lasciare il proprio paese, e che si afferma in tanti modi diversi. Ci può essere ad esempio, come in alcune storie, la volontà di fare degli studi, o uno sport, che in patria non sono consentiti alle donne».
Quindi c’è una questione femminile anche qui.
«Sì, perché il rischio di perdita di libertà per le donne è sempre più alto. Documentandomi ho scoperto che proprio nei viaggi più drammatici, come quelli che avvengono nel Mediterraneo, la maggior parte dei partecipanti è donna. Di loro si parla poco, perfino quando cadono in acqua e muoiono. Avvicinare bambine e bambini, con delicatezza, a temi del genere, è importante».
Senza dimenticare il dato politico di fondo: viviamo nell’era dei Muri, geografici e mentali.
«Ovunque è così. Ma in particolare in America, negli ultimi quattro anni, è diventata davvero dura. Perfino al di là del problema storico della discriminazione razziale.
Io che ci vivo dal 2012 mi accorgo del cambiamento: il desiderio di allontanamento di chi è diverso si è radicalizzato. Come dimostra la forza che, per reazione, ha acquistato il movimento Black Lives Matter: le persone nere si sentono ormai direttamente, fisicamente minacciate. Prima dell’amministrazione Trump non c’era un clima tanto pesante».
Un periodo storico difficile, complicato. Come far capire ai bambini, e soprattutto alle bambine, che cambiare il mondo in meglio è possibile?
«Già dal primo libro abbiamo cercato un metodo adatto a loro: storie molto brevi, senza dare troppe informazioni di contesto che possono confondere o allontanare. Il trucco è trovare, per ciascuna storia, un gancio che attragga l’attenzione dei piccoli lettori, stimolandone la curiosità. Ad esempio, facendo capire che tutte le protagoniste hanno avuto un sogno, un talento, già nell’infanzia. Che già allora succede qualcosa che ti può spingere in una determinata direzione, e che poi si sviluppa quando diventi grande. È un meccanismo narrativo potente: chi legge sente che quella avventura è alla sua portata».
L’identificazione scatta solo in ambito femminile?
«Non credo. Agli eventi, agli incontri, ai workshop, ci sono in prevalenza bambine, ma anche tanti bambini.
Nell’infanzia lo stereotipo di genere ancora non si è formato, arriva di solito con la preadolescenza e si consolida nell’adolescenza. Infatti i nostri libri vengono molto spesso adottati nelle scuole. Mentre molti libri di testo sono ancora di un maschilismo esasperato».
Eppure viviamo in periodo di politicamente corretto spinto: statue distrutte, libri banditi...
«In linea generale credo che non si debba avere paura di abbattere un simbolo di discriminazione, come appunto può essere una statua, anche se è importante nella nostra memoria: se non lo pensassi che bambina ribelle sarei?
Fermo restando che a volte questo meccanismo appare un po’ inutile: troppo spesso ci si batte per questioni di superficie, anche sui social. Fare finta che questo o quel personaggio controverso non siano mai esistiti non ha molto senso. L’importante è far capire ai giovanissimi che c’è stato un racconto di un certo tipo, ma che un racconto nuovo di quella stessa storia è possibile».
Anche la pandemia sta cambiando il nostro mondo: è preoccupata per l’effetto sui più piccoli?
«Come responsabile di un brand che si occupa di educazione, informazione e intrattenimento, ci ho pensato e ci penso molto. Durante il lockdown mi sono preoccupata soprattutto per la scuola, che è stata lasciata un po’ per ultima. Un tasto dolente. Anche per questo io e la mia squadra abbiamo messo in Rete una serie di attività per bambini su misura per un periodo così difficile.
Recentemente abbiamo anche tenuto il primo evento “Rebel Girls” esclusivamente online, con tante ospiti».
Questo perché il suo ormai è un marchio globalmente celebre. Qual è il segreto di questo successo, che ha generato tra l’altro infiniti tentativi di imitazione?
«Quando ho cominciato la raccolta fondi su Kickstarter per il primo libro sapevo di avere buon materiale, ma non avrei mai pensato a un boom così clamoroso: tradotto in 49 lingue, letto in 85 territori. Il motivo? Credo che le mie bambine ribelli, nate sull’onda dell’entusiasmo per la candidatura di Hillary Clinton (poi sconfitta da Trump), hanno anticipato lo spirito del #MeToo. L’esempio di Hillary ci ha fatto sentire che stavamo entrando in nuova fase, in cui le donne possono e devono aspirare al potere, anche al più grande. Mentre il movimento contro le molestie sessuali ci ha dimostrato che noi sappiamo, e dobbiamo, conquistarci diritti e visibilità. Credo che mentre lavoravamo al primo libro abbiamo anche intercettato, almeno a livello inconscio, quell’aria di protesta poi incarnata da Greta».
E adesso?
«In questa che definiscono la quarta ondata storica del movimento femminista, tra le donne c’è una pulsione fortissima a raccontare il mondo in modo estremamente contemporaneo. Femminismo è una parola che fa paura, la si associa a cose noiose, invece è una narrazione piena di vita: sono felice che i miei libri siano diventati un pezzo di questo puzzle».