Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 24 Sabato calendario

Intervista a Stella McCartney

Il titolo di icona della moda sostenibile Stella McCartney se l’è guadagnato sul campo. Negli ultimi venti anni, con il suo marchio, la stilista ha costruito un piccolo impero del lusso vegano, all’avanguardia sul tema come nessun altro. Merito pure, dice lei, dell’essere cresciuta in una famiglia – i suoi genitori sono Paul e Linda McCartney – assai legata a certi principi. E la sua autorevolezza spiega l’attenzione con cui è stato accolto il "manifesto" che ha lanciato nei giorni scorsi: un alfabeto in cui ogni lettera è interpretata da un artista, da Jeff Koons a Cindy Sherman, e indica un elemento della sua filosofia (C per coscienza, V per vegano e così via). La stilista crede talmente nel progetto da avergli dedicato la collezione spring 2021: ogni look incarna uno dei vocaboli.
Perché un alfabeto?
«Per prima cosa, volevo ricordare tutto quello che ho fatto in questi anni. E poi ho pensato che, tradotte in una forma chiara e diretta, quelle idee potrebbero aiutare chi vuole saperne di più. Oggi tutti parlano di moda sostenibile, non si sa più a chi o a cosa credere. Io seguo quei principi dal primo giorno, credo perciò di avere la credibilità necessaria. Come puoi dire agli altri come vivere se non sei tu a dare l’esempio?».
Come dice lei, la sostenibilità oggi è un tema assai popolare. Com’era quando ha iniziato?
«È divertente. All’inizio sembrava che, con i genitori che ho, non fossi autorizzata a fare la designer; come se fossi spudorata anche solo a pensarlo. Poi, quando mi è stato "permesso" di entrare nel sistema, mi sono rifiutata di rinnegare i miei principi per questo lavoro. Altro scandalo: come osavo pensare a modo mio? A me pare assurdo, la moda dovrebbe essere la scintilla che innesca il cambiamento, provocare ed emozionare sfidando lo status quo, e invece così non era».
Le cose però sono cambiate.
«Non grazie a chi fa questo lavoro. Se oggi posso parlare liberamente è perché il pubblico ha colto l’importanza di certi temi, e la moda si è dovuta adeguare. Lo vedo anche con i miei fornitori, molti dei quali italiani: all’inizio ogni mia richiesta di metodi e materiali alternativi era una lotta, perché ero solo io a volerli. Oggi invece per tutti loro la sostenibilità è il campo primario su cui investire, e i progressi sono rapidissimi. Sanno che non possono rimanere indietro».
Si sente una leader?
«Non ho mai voluto esserlo, è che non conosco altro modo di lavorare. E comunque non sono io che comando, sono gli altri che si stanno mettendo in pari. È come in politica: non c’è nessuno che dica "Ok, ho sbagliato, dovevo agire diversamente". Nessuno ammetterà mai l’errore, ma non voglio essere quella del "ve l’avevo detto". Sarebbe il mio ego a parlare, e non mi piace».
Tornando al manifesto, come ha scelto i vocaboli e gli artisti?
«È stato incredibile: tutti quelli a cui l’ho chiesto, mostri sacri e non, hanno accettato donando con generosità tempo e lavoro. Per le parole è stato semplice: ciascuna è legata al brand, che sia la N di natura o la D di desiderio. Anche il desiderio è fondamentale: sia chiaro, se oggi posso parlare è perché le mie collezioni piacciono».
Ogni look della collezione spring incarna una parola, come i capi fiorati ispirati a sua madre Linda, la L, scomparsa nel 1998. Difficile?
«Per niente, è la sintesi dei miei ultimi 20 anni. Per esempio, il vestito per la Z di zero sprechi è fatto solo con pezzi di vecchie collezioni. Mi piace il concetto del riciclo prezioso».
Non crede che ormai sia chiaro a tutti che la moda non è solo vestiti?
«Lo sta chiedendo alla persona sbagliata, per me è sempre stata molto di più! Spero solo che lo abbiano capito tutti. Oggi c’è troppo di tutto: troppi show, troppe collezioni, troppa merce invenduta, soprattutto a causa del fast fashion.
Così i consumatori non hanno più rispetto di ciò che indossano: dobbiamo far capire loro che hanno il diritto, e il dovere, di sapere dove un indumento viene fatto, quanta acqua è stata usata, quanti alberi sono stati abbattuti, quanto sono pagati i lavoratori che l’hanno cucito».
Basterà spiegarlo, secondo lei?
«È un ottimo punto di partenza. Così magari si abitueranno a pensare che invece di comprare una maglietta a 5 euro possono noleggiare qualcosa per la stessa somma, o magari possono vendere un pezzo che già hanno per investire su un indumento più caro, ma che durerà più a lungo.
Il sistema va rivisto dall’inizio alla fine: siamo tutti colpevoli di ciò che è stato sinora, ma è inutile batterci il petto. Cambiamo e andiamo avanti».
Il suo prossimo obiettivo?
«Comunicare meglio quello che faccio. Una delle domande che mi fanno più spesso è come mai pur essendo vegana, la Falabella (borsa bestseller del brand, ndr ) costi più di un modello di pelle: bisognerebbe chiedersi come mai la vita di un animale valga talmente poco che il nylon riciclato è più caro della sua pelle. Deve cambiare la prospettiva».
Un anno fa ha lanciato una linea sui Beatles. Pensa di farne un’altra?
«Chissà! Tra mio padre, Ringo e tutti i ragazzi è stata come una festa in famiglia: mi piacerebbe tanto».