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 2020  ottobre 24 Sabato calendario

Un corso per gestire il lutto ai tempi del Covid

A dire addio si impara, ma non da soli, specialmente se l’addio è quello di una morte. Qualcuno ne è talmente convinto da aver istituito un corso per insegnare come gestire l’estremo saluto. Lo ha fatto la “Scuola Capitale Sociale”, fondata da Ugo Biggeri, Lorenzo Fazio e Iolanda Romano, che propone formazione on line con un obiettivo ambizioso: offrire strumenti pratici e partecipativi per innescare e accompagnare il cambiamento verso la sostenibilità e l’equità.
I corsi trattano temi troppo contemporanei perché esistano già percorsi accademici, ma in un presente che corre più veloce della capacità di comprenderlo, il tempo per aspettare la storicizzazione forse non c’è. Così, tra un corso a pagamento su come “Ripensare lo sviluppo delle aziende nella transizione ecosostenibile” e uno per “Fare impresa con i principi della finanza etica”, la scuola ne ha proposto gratuitamente uno proprio su “La condivisione sociale del lutto da coronavirus”. Docente era Marina Sozzi, filosofa e tanatologa che da anni si occupa di insegnare a “dire la morte”. Se Torino ha un rito funebre civile è perché lo ha scritto lei. “Oltre a professionisti dell’assistenza ospedaliera e della cura a tutti i livelli, il 10% dei partecipanti aveva da gestire il dolore, la rabbia e l’impotenza di un lutto diretto”. La rabbia, un sentimento diffuso che nei mesi ha trovato anche forme organizzate, come il gruppo Facebook intitolato “Noi denunceremo”, quasi 70mila iscritti con questo obiettivo: “Siamo nati per far sì che se qualcuno poteva agire e non l’ha fatto, se qualcuno ha anteposto chissà quale interesse alla vita di migliaia di persone, paghi penalmente per le sue azioni e risponda delle sue negligenze”. La percezione delle morti da coronavirus somiglia più a quella per le perdite causate da un terremoto che a quelle per una patologia e necessita di riti pensati appositamente. Nessuno stupore. Ci siamo creduti una società ormai anti-ritualista, ma il Covid ci ha fatto riscoprire che nei passaggi di vita restiamo una specie tribale, disperatamente bisognosa di codici emotivi condivisi.
Dire “si dispensa dalle visite” definiva il lutto come fatto privato, ma in tempi in cui è un decreto a decidere quante visite possiamo ricevere, quella frase assume una portata ben diversa. I familiari delle oltre 30mila persone morte nella prima ondata lo hanno imparato a loro spese e in quel silenzio forzato è accaduto che quelle che sembravano ipocrite liturgie sociali ci siano invece mancate terribilmente. Il danno psicologico dei traumi del mancato addio è incalcolabile e si nutre di una domanda terribile: avrei potuto oppormi al distanziamento che ha lasciato quel mio familiare a morire da solo? Nella concitazione dell’emergenza, i protocolli di delicatezza con cui le strutture sanitarie in genere comunicano le notizie sgradevoli sono andati persi e molti hanno saputo di aver perso genitori e nonni telefonando in ospedale nella convinzione di trovarli vivi. Le mancate informazioni e il sospetto di aver perso gli affetti per motivi diversi dalla malattia ha re so difficile l’elaborazione del lutto, anche perché tanti hanno visto i corpi già nei sacchi neri dell’obitorio e molti non li hanno visti affatto.Se già è difficile celebrare il compimento delle assenze quando c’è la possibilità di piangere su un corpo presente, come si fa a gestirlo in mancanza del più piccolo segno? Il modulo formativo del corso partiva quindi da una domanda: di cosa abbiamo bisogno per commemorare i nostri cari morti di coronavirus? La risposta, che servirebbe (e purtroppo ancora servirà) a tutta Italia fino al giorno del vaccino, nella “Scuola Capitale Sociale” è arrivata attraverso una tecnica di deliberazione tipica dei percorsi partecipativi, quelli che di solito vengono usati per gestire i conflitti pubblici. Modalità che servono a mediare il conflitto su questioni come alta velocità, basi militari, grandi opere o decisioni amministrative impattanti sono state impiegate per capire come trovare insieme una soluzione all’afasia e alla paralisi emotiva del lutto da coronavirus.
Abbiamo bisogno di vicinanza, di non essere lasciati soli, ma il distanziamento rende complicate le modalità di contatto che abbiamo sempre vissuto come naturali. Come spostare il contatto simbolico e mentale in una società senza dimensione simbolica? Come si può costruire vicinanza quando è proprio la distanza a metterti al sicuro? In assenza del corpo, la parola assume un’importanza eccezionale nella comunicazione del lutto. Occorre imparare a pronunciare i gesti, a scrivere sui telefonini frasi plastiche come “adesso ti sto abbracciando”, a visualizzare il più possibile nei video i corpi e i volti e a pronunciare pubblicamente i nomi per combattere contro la spersonalizzazione dei numeri a cui per mesi sono stati ridotti i morti da coronavirus. La tecnologia può essere fondamentale, se usata in modo empatico e creativo. Molte persone, in assenza di funerali fisici, in questi mesi hanno celebrato on line la memoria degli scomparsi attraverso gesti semplici: l’accensione contemporanea di candele, lo scambio di foto, filmati ed esperienze di vita e l’attivazione di spazi virtuali dove il ricordo personale potesse diventare, attraverso la condivisione, memoria per tutti. Il trauma resta personale e non trasferibile, ma la narrazione rituale collettiva può trasformarlo in dolore, che invece è uno spazio abitabile da ciascuno di noi. È grazie alla narrazione se possiamo addolorarci per i morti della Shoah, per quelli affogati nel Mediterraneo o per i corpi straziati dalla guerra in Siria, anche se non dobbiamo gestire il trauma di un parente morto in un lager, su un barcone affondato o sotto un bombardamento. L’importante è imparare a comunicare alle nuove condizioni di linguaggio imposte dalla pandemia, perché ormai sappiamo che peggio della perdita c’è solo il non poterla dire.