Sette, 23 ottobre 2020
12QQAFM10 Intervista a Sophie Kinsella
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Ci sono due cose che potrebbero salvarci — anche dal Covid — secondo Sophie Kinsella: l’amore e l’ironia. Entrambe sono contenute in dosi abbondanti nel suo ultimo romanzo Amo la mia vita, che prende volutamente le distanze da un mondo spaventato e recupera quella che da sempre è la cifra dell’autrice inglese: far ridere. «Quando la gente mi scrive dicendo che grazie a un mio libro ha guadagnato due ore di spensieratezza, so di aver fatto centro». La sua nuova eroina si chiama Ava e non è affetta da shopping compulsivo come Becky, il personaggio da milioni di copie del suo romanzo d’esordio I Love Shopping (non a caso il titolo originale era The Secret Dreamworld of a Shopaholic). La nuova commedia romantica della Kinsella si svolge in un monastero in Puglia, dove Ava va per frequentare un corso di scrittura creativa, anche con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle episodi sentimentali grotteschi.
Vince tra tutti l’incontro attraverso una app con un uomo scelto per il magnetismo dei suoi occhi, ma che all’appuntamento rivelerà di aver fotoshoppato la foto con lo sguardo di Brad Pitt. La sorpresa che le riserva il suo viaggio italiano ha l’aria dell’incontro del destino: Dutch (è un nickname scelto per il corso di scrittura ed è lo stesso del cane che aveva da bambino) sembra l’uomo dei sogni. Tra i due è colpo di fulmine ed entrambi decidono di non chiedersi nulla della loro vita reale, almeno fino al rientro a Londra: per tutto il tempo saranno Dutch e Aria.
Sophie, vuole dirci che nelle storie d’amore cerchiamo sempre di sapere troppo e troppo in fretta?
«Sicuramente abbiamo bisogno di colmare velocemente un vuoto di conoscenze. All’inizio di una relazione, quando conosci qualcuno, sei consapevole di avere in mano solo un piccolo scatto fotografico e che dovrai allargare la visione ai suoi hobby, alle manie, alla famiglia: è il processo di scoperta dell’altro. Loro si innamorano prima di essersi dichiarati su tutto il resto».
Nella vita normale invece ci si innamora dopo aver scoperto il resto?
«Quando ho iniziato a scrivere il libro la frase “chi ama me, ama il mio cane” è stata davvero una ispirazione, perché poi ho cominciato a ragionare e ad espandere questo concetto a tutti gli ambiti della vita. Per amare abbiamo bisogno che la persona che scegliamo non solo ami noi, ma il nostro cane, i nostri amici, che ami fare il bagno con la temperatura dell’acqua che piace a noi. Spesso non c’è equilibrio e il compromesso diventa pesante: amare non deve essere una accettazione completa dell’altro».
Ava ha un profilo molto contemporaneo: vive a Londra, ha un beagle, frequenta le app di incontri. C’è qualcosa di autobiografico?
«Non è un romanzo che parla di me, tranne nella parte del monastero pugliese, che esiste realmente ed appartiene a una mia amica. Ci vado spesso, il mio amore per l’Italia è risaputo. Come è risaputo che sono sposata e con prole! No, non frequento app di incontri, ma ho molti amici che lo fanno con regolarità e che mi hanno illuminato con i loro racconti».
Cosa le hanno svelato?
«Il libro parla delle aspettative in amore. Conosco persone che si sono conosciute attraverso una app e sono rimaste per esempio deluse dal senso dell’umorismo. Uomini e donne che parevano leggeri si sono poi rivelati pesanti come macigni, perché la gente non dichiara mai apertamente la propria opinione sulle cose importanti del mondo, ci si ferma alla birra preferita o al luogo di vacanza dei sogni. C’è un problema di sincerità, di cui la foto ritoccata è solo la spia principale».
C’è ancora un senso di pudore a dire di essersi conosciuti attraverso Tinder?
«Direi di no, per fortuna. C’è stato un momento molto divertente in cui le coppie avevano una doppia versione da raccontare al mondo: quella socialmente accettabile, in cui si erano conosciuti a cena da amici, e quella vera, dell’incontro in una app. Oggi non c’è più questa censura: in fondo oggi molte cose della vita accadono online, come questa intervista per esempio!».
Le basi di una storia che nasce in rete o nella vita reale sono le stesse?
«Certamente, perché tutte le relazioni sono caratterizzate dal processo di riempimento di un vuoto. Quando incontri una persona a una cena puoi sentire il suono della sua voce, avere la percezione del suo sguardo ma non sapere, al tempo stesso, nulla di lui e di lei. Oggi con le app si conoscono molti più dettagli della vita della gente, ma manca il linguaggio corporeo, la fisicità. In un senso o nell’altro bisogna colmare una mancanza».
Nella rivoluzione dei rapporti sentimentali c’è anche il tema del rovesciamento dei ruoli. Sheryl Sandberg, ceo di Facebook, dice che in un mondo perfetto la metà delle donne comanderebbero le aziende e metà degli uomini le case. Che ne pensa?
«Non posso che condividere. A casa mia questo è in atto già da tempo: i miei figli più grandi, di 23 e 24 anni, sono degli ottimi chef, senz’altro più bravi di me. Decidere chi nella coppia porterà a casa lo stipendio più alto oggi diventa un’opzione da dividere al 50 per cento».
Il ribaltamento dei ruoli uccide l’erotismo?
«Per salvaguardare l’erotismo bisognerebbe condividere meno tempo, coltivare un po’ il valore distanza: dovremmo riprendere a mandarci dei bigliettini, soprattutto ora che il Covid ci costringe a convivenze molto più intense».
Il Covid ha influenzato la sua scrittura? Ha pensato che potesse essere stonata l’ironia - a tratti quasi commedia - del suo romanzo in questo periodo?
«Anzi, penso che essere meno seriosi ed angosciati ci aiuterà a superare meglio questo momento così drammatico. L’ironia è il mio filtro del mondo, sono quella classica persona che potrebbe fare una battuta anche davanti al plotone di esecuzione. Aggiungo che il senso dell’umorismo è catartico, essenziale alla natura umana e che ci aiuta a elaborare lo stress, non solo quotidiano ma anche quello legato alla condizione umana. In Inghilterra durante il lockdown le persone cercavano di farsi una risata e andare avanti».
Non è un controsenso?
«Per nulla: non ci deve essere il pudore della leggerezza. È stato un anno stranissimo e abbiamo capito che ci sono cose che possiamo controllare e cose che non possiamo. Abbiamo in fondo tutti sorriso della nostra incapacità a rispettare le regole, che non significa ridere della situazione. Io stessa ho riso della mia gestione problematica della didattica a distanza dei bambini o continuo a dimenticarmi la mascherina a casa».
Di cosa ci dobbiamo liberare per affrontare meglio i mesi che arriveranno?
«Siamo iperconnessi e non sempre siamo in grado di sostenere questa iperinformazione: dobbiamo lasciarci andare e accettare il fatto che abbiamo bisogno di distrazione. “Non stavo bene e sei riuscita a farmi dimenticare le mie preoccupazioni”: questa è la frase che mi restituisce il senso del mestiere che svolgo».
Ha venduto milioni di copie con i suoi libri precedenti. Ogni volta che esce un nuovo romanzo si sente un capocannoniere che deve fare per forza gol?
«Ci sono cose che possiamo controllare a altre che ci sfuggono: io posso fare del mio meglio in fase di scrittura. Poi a decidere è il pubblico e mi piace che sia così».