Sette, 23 ottobre 2020
QQAFZ20YSESSO Intervista alla poetessa trans Giovanna Vivinetto
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Non è facile diventare sé stessi, ciò che sentiamo di essere, e venire accettati, amati, premiati persino. Giovanna Cristina Vivinetto c’è riuscita, benché sia nata Giovanni, in Sicilia, 26 anni fa. Il merito? Della famiglia, che ha saputo capire; della scuola, dove hanno rispettato la transizione da Giovanni a Giovanna; dei medici, arrivati con scrupolo alla diagnosi di «disforia di genere», cioè vivere con disagio la propria identità sessuale di partenza ( disforia è il contrario di euforia ); e della poesia, che da conforto adolescenziale è diventato espressione di una identità che è sbocciata nei versi di Dolore minimo (Interlinea), sorprendente esordio che nel 2018 ha sollevato rigurgiti di reazionari cattolici, plausi della critica, successo di pubblico e premi. Ovviamente il merito principale è suo, di lei, Giovanna Cristina, che protesta se le metti l’asterisco come vorrebbero i fanatici del neutro, Giovann*: «Non mi piace. C’è una sorta di violenza, voler risultare più aperti e liberali degli altri, ma la liberalità non emerge dalle parole, bensì dai fatti, da come ci relazioniamo, dai comportamenti. C’è chi mette la U per non offendere i gender non conformi, “Buongiorno a tuttu”? No!».
Sull’asterisco si è conclusa la conversazione fatta via web con Giovanna Cristina, in collegamento da Roma, dove si è laureata in Lettere e vive. È senza trucco, l’ovale incorniciato da capelli lunghi, gli occhiali smaltati bordeaux, lucidi come certi rossetti. Nel 2019 è uscito Dove non siamo stati (Rizzoli), raccolta di poesie che racconta i postumi della transizione da Giovanni a Giovanna, i ricordi della nonna paterna malata di Alzheimer, e poi si apre alle voci del paese d’infanzia, Floridia; in chiusura, la poesia che dà il titolo alla raccolta, mescolando passato e futuro:
«Abbiamo imparato i nostri nomi / per sentire che suono avessero / quando non li avremmo più riconosciuti. / Per quando i volti di una vita / saranno diventati quelli di un altro / avremo noi i nostri nomi a sottrarci / dalla penombra - per un attimo / sapremo che non ce ne siamo mai andati»
Nel passaggio da Giovanni a Giovanna, lei ha inserito Cristina. Da dove viene questo nome?
«Non l’ho mai raccontato, me ne vergognavo un po’. Il percorso per diventare Giovanna è iniziato a fine liceo, ma già da prima si stava sedimentando la consapevolezza che non mi trovassi bene con i mezzi forniti alla nascita. Sono una persona positiva, ma avevo una angoscia cui volevo sfuggire; così alle medie ho aperto un profilo su una chat in cui apparivo come ragazza. È nato come scherzo, goliardata: vediamo cosa succede se mi fingo femmina! Compresi poi con gli anni che era l’unica realtà in cui mi sentivo a mio agio, stavo bene con me stessa. La finzione è diventata più vera della realtà, l’unico modo in cui mi potevo esprimere».
Molto pirandelliano. Ma perché proprio Cristina. Un omaggio familiare? A Cristina D’Avena?
«Se sei religioso magari pensi venga da Cristo, dalla sua passione, dal suo processo di trasformazione: non è sessuale, ma anche quella è una transizione».
Che foto metteva nel profilo?
«La foto di una ragazza, che conoscevo, mi spacciavo per lei, e mi sento in colpa, perché poi ho scoperto è un reato, ma era un alter ego per capire certe dinamiche. Era bellissima, una ragazza stupenda, c’era ammirazione, e con il tempo mi sono avvicinata, no?».
Dovrei vedere l’originale. Ne ha parlato con lei?
«No. Dopo il liceo le nostre vite han preso direzioni diverse, magari un giorno succederà tranquillamente».
Non è pericoloso per un adolescente crearsi una doppia identità? Non tutti hanno la sua maturità.
«Sì, può diventare una gabbia se non ti puoi sfogare nella realtà. Io vedevo le mie compagnette di scuola fare le loro esperienze e dicevo perché non posso farlo? Avevo invidia e gelosia, ma era un processo inconscio. Poi come ho messo a posto le cose, ho detto ok ora sarò Giovanna anche nella vita reale; ho chiuso il profilo qualche mese dopo essermi messa con il mio ex, nel 2013».
Come l’ha conosciuto?
«Con la chat. Nessuno dei ragazzi con cui chattavo capiva che dietro Cristina c’era un ragazzino. Soffrivo, perché mi affezionavo ma poi dovevo lasciare andare tutto, non potevo rivelare qualcosa di incompatibile con la situazione, dire “senti io sono un ragazzo”; così mi nascondevo, mortificavo, vivevo l’inconsistenza del mio presente. Poi è successo qualcosa. Avevo iniziato la terapia da un mesetto e conobbi una persona via chat. Mi affeziono e dopo qualche mese capisco che c’è qualcosa in più e allora questa volta, la prima e l’unica, mi sono confessata. Gli ho parlato con il cuore tra le mani: “C’è questa cosa che devo dirti, non ti piacerà, io ti ho dovuto mentire, non sono una ragazza, per il momento, ma lo sto per diventare”. Lui all’inizio c’è rimasto male, è sparito, dopo pochi giorni si è ripresentato e mi ha detto “Senti, Giovanna o Cristina, non importa quello che sei adesso, mi piaci come mente, come persona e vorrei approfondire la cosa”. Siamo stati 6 anni assieme, dai miei 19 ai 25 anni: è il mio ex. Mi ha accompagnato in un’esperienza che per tante persone è vissuta in solitudine. Non è stato il mio caso. Anche grazie alla famiglia».
In «Diario Minimo» la spinta a diventare Giovanna è il rifiuto del padre, l’amore per la madre, il voler piacere ai maschi. Quanto c’è di autobiografico?
«Si tratta di un diario in versi autobiografico, ma l’esperienza personale è filtrata da strumenti letterari. Sono cresciuta in una famiglia che mi ha amata, sì, ci sono stati dolori, ma dominava la comprensione. Ho messo incrinature, nei silenzi, picchi di dolore per mettermi io stessa nei panni di un genitore. Io, se fossi una mamma, un papà, come potrei reagire? E così mi sono calata nei personaggi della madre e del padre. In realtà la persona cui più assomiglio è mia nonna materna. Nel romanzo che sto scrivendo sto mettendo al centro il rapporto tra nonna e nipote».
Che persona è sua nonna?
«Una donna fantastica, curiosa, ha perso il marito giovanissima, a 36 anni e non si è più risposata, voleva essere libera, diceva “Non voglio altri uomini in casa!”. Anche la mia scoperta delle chat la devo a lei, passava molto tempo lì collegata, litigava, ha un bel caratterino. Si informava anche su cosa fosse la transessualità, mi istruiva, quando andavo da lei diceva: “Sai ho letto che l’operazione si fa così e così”. Un giorno mi mostra un giornale, cattolico, con un articolo che raccontava che Papa Francesco dice che la Chiesa ama anche le persone trans. Lei era contenta».
Come tutor digitale ha avuto sua nonna, come fatina catodica, invece, Barbara D’Urso.
«Per me la storia di Giuseppe Schisano, attore trans, che fa coming out e dice io sono Vittoria, è stata un grande esempio. Era il 2011, avevo 17 anni, Barbara in tv ha seguito passo passo la storia, fino all’operazione, e riusciva a evitare la confusione che c’era sui trans, l’idea sbagliata che sono uomini che fanno la chirurgia plastica per campare, per prostituirsi: un preconcetto con cui molti crescono, che appartiene a un’altra epoca storica, in cui i trans erano rappresentati da Vladimir Luxuria. Tutte le persone trans che ho conosciuto di quella generazione sono passate dalla prostituzione. Fortunatamente oggi le cose sono cambiate, in parte».
Quali sono i preconcetti duri a morire?
«Dopo essermi lasciata con il mio ex mi sono iscritta a Tinder, per pigrizia. Beh, nessun ragazzo credeva che io fossi trans, dicevano “in che senso? Cosa vuol dire?” Molti pensano che la transessualità sia riconoscibile dall’aspetto, la voce... Così ho messo nel profilo che ero trans. Ma niente: c’era ancora chi non ci credeva e diceva “che bella trovata che hai scritto per allontanare i maiali”, “ammazza che bel lavoro il chirurgo”, “in che senso trans? Sei donna e vuoi diventare uomo?”».
Non ci sono quelli che cercavano proprio i trans?
«Sì, ma mettevo le cose a posto o li bloccavo. Alcuni si fanno dei voli pindarici... si pensa che una donna transessuale deve avere chissà quali doti strane, ma è un mito instillato dalle narrazioni videopornografiche, dove le trans hanno certe dimensioni...».
Le aspettative create dal porno sono un problema per tutti...
«Sì, ma per i trans l’inganno è maggiore perché dobbiamo fare una terapia farmacologica che cambia il fisico, e disattiva quella parte sessuale lì. Lo dico in maniera rude: quel coso non funziona. L’erezione non è come prima, c’è una atrofia della struttura stessa».
Meglio, dal punto di vista di Giovanna, no?
«Sì, meglio. Tra l’altro mi sottoporrò a un intervento chirurgico, per rimuovre i testicoli. Dirà: perché i testicoli e non tutto? Perché ora sto bene con il mio corpo, la mia sessualità, con quello che ho banalmente tra le gambe; l’unico disagio è che devo prendere dei farmaci per sopprimere la produzione di testosterone, che mi fa anche crescere i peli, accentua la parte maschile...».
È Giovanni che rompe le scatole...
«Esatto. Ma voglio ridurre lo stress farmacolgoico, per il resto sto bene con quello che ho, poraccio, lui non disturba: non è un organo verso cui provo disforia, per dirlo in maniera elegante. Così ho chiamato il chirurgo, che un anno fa al Forlanini mi aveva messo in lista per un’operazione finale, e gli ho detto che tolgo solo i testicoli. Lui mi ha detto “brava Giovanna” e poi mi ha chiesto “ma lei scrive poesie?”. Dice che a un convegno di chirurgia plastica hanno concluso leggendo dei miei versi. Una cosa bellissima, ero imbarazzata ma onorata, anche per il fatto che lui, con tutte le persone con cui ha a che fare, si ricordasse di me».
La poesia è stata una terapia a parte, nel suo processo di crescita e transizione da ciò che era a ciò che è. Quale autore o autrice l’ha aiutata di più?
«La vocazione per la poesia e il bisogno della transizione sono venuti allo stesso modo, una presa di consapevolezza e di coscienza identitaria che presuppone l’espressione di questa identità. Al liceo avevo appena iniziato la terapia e il mio professore di filosofia, che sapeva che imitavo Leopardi e Foscolo nello scrivere, mi diede un libro di Szymborska e disse “Giovanni, leggi e impara da questa autrice”. Io ero infastidita, come si permette, e il mio genio creativo? Ma è stata una lettura fondamentale. Le mie preferite sono Il mio arrivo nella città di N, Amore a prima vista e Il gatto in un appartamento vuoto».
Lei in “Dolore minimo” scrive di «Quando anche il tuo nome verrà sbagliato, / farfugliato in sillabe di indifferenza». Quali parole l’hanno ferita?
«Certe domande apparentemente ingenue: “Sì, ma fino a quando dovrai prendere gli ormoni? Quando finisce questa cosa?”. Come se fosse una malattia. O il fatto che se non ti operi, anche se in Italia non è più obbligatorio per cambiare identità, non ti considerano come ti senti. Vogliono indagare nelle tue parti intime, esigono una risposta a domande tipo “cos’hai tra le gambe?”, come se fosse normale chiederlo».
Mi fa pensare ad Arcilesbica che rivendica l’identità anagrafica e anatomica femminile di Ciro, il ragazzo trans di Maria Paola, morta per colpa del fratello che li ha speronati in motorino. Come se lo spiega?
«C’è un problema di base di certe microcomunità femministe che per preservare l’identità femminile creano barriere, divergenza. Se ancora nel 2020 parliamo di organi sessuali o della capacità di generare figli per definire una donna, allora siamo nel medioevo».
Un medioevo femminista. Paradossale, no?
«Il problema è l’ignoranza, e c’è anche nei movimenti LGBT quando qualcuno dice che non serve il pride e non bisogna lottare per i diritti, penso a Platinette. Ma si ignora la storia: il femminismo non nasce come diritto per tutelare solo le donne, ma come movimento per migliorare i diritti civili di tutti, prendendo come punto di riferimento le donne che all’epoca, e ancora oggi, sono in una posizione minoritaria».
Dovrebbe essere lo spirito del ddl Zan (Pd) per integrare la legge Mancino che punisce reati e i discorsi di odio per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, allargandola a motivi basati su orientamento e identità sessuali e di genere. Come esprimere questo spirito?
«Intanto il fatto di aggiungere diritti a dei gruppi non toglie diritti ad altri. Poi serve immaginazione, empatia. Ribaltiamo: quante persone eterosessuali conosciamo che subiscono discriminzioni per il fatto di essere eterosessuali?».
...Le donne?
«No. Non confondiamo i piani. Sesso, identità di genere e sessualità sono cose diverse».
Il rischio di confusione è reale.
«Si fanno tanti errori perché per contrapporre il trans al cisgender si usa la categoria dell’eterosessuale, ma sono cose diverse, l’eterosessualità definisce l’orientamento sessuale, il fatto di essere trans l’identità di genere».
“Cisgender”, cioè chi si riconosce nel proprio sesso, mi sembra una parola di polistirolo, da imballaggio. Non è disfunzionale?
«Un po’ lo è, di polistirolo, è una parola non connotata, naturalizzata, se non la problematizziamo; sembra normale che le persone siano cisgender, ma non è così. I termini spesso si creano per opposizione».
Lei si definisce poetessa, parola che altre poetesse, anzi, considerano una diminutio.
«Meglio non creare troppi sbattimenti mentali e dare un peso relativo alle parole. La lingua è questa, possiamo modificarla con l’uso, lo dirà il tempo, ma certe manipolazioni per renderla più aperta sono una forzatura: non è la lingua a creare pregiudizi ma le persone che la usano. Serve questo scatto. Se vogliamo dare una impronta violenta useremo certi termini, se vogliamo dare una istanza di libertà ne useremo altri. L’asterisco, in questo, non aiuta».