Sette, 23 ottobre 2020
Intervista a Mika
Indovino Mika, all’ingresso dell’hotel, solo perché lo sto aspettando. La mascherina sul volto e il cappello con la visiera lo rendono quasi irriconoscibile. Si avvicina al termoscanner, igienizza le mani. Il pericolo Covid impaccia i nostri movimenti - non sappiamo come presentarci senza sorrisi né strette di mano -, ma scardina anche l’aura magica che avvolge la celebrità. Lui indossa la stessa fpp2 che indosso io, ha le mie stesse paure. Immagino che, come tutti, abbia sofferto il lockdown.
Quanto è stato difficile per te questo 2020?
«Le regole sono saltate. È una sfida enorme. Ci sono così tanti cambiamenti in atto, che si può solo rispondere con creatività e coraggio. Anche il mio ritorno a X Factor è avvenuto con questo spirito: tutto cambia, non può che cambiare».
Mi conduce attraverso il loggiato e i corridoi del Four Seasons, che conosce bene perché ci ha dormito spesso dopo i concerti. Saranno i soffitti affrescati, i lampadari di cristallo, ma al primo impatto mi appare un cavaliere d’altri tempi.
Renato Franco ha scritto sul Corriere che da questa edizione di X Factor è emersa un’Italia di provincia affamata di riscatto. Lo pensi anche tu?
«Sento una grande urgenza di racconto in questi ragazzi, che porta una luce diversa allo show. C’è tutta un’Italia giovane, multiculturale, fluida, difficile da contestualizzare, ed è dalle città meno centrali che spesso arrivano le storie più forti. Questo è l’aspetto che mi piace di più di questa edizione: non strumentalizza le differenze, ma racconta le persone».
Sbuchiamo all’esterno e un meraviglioso giardino all’italiana ci accoglie, Firenze ci circonda con le sue cupole, i suoi campanili: potremmo trovarci in qualsiasi secolo. Ha appena smesso di piovere. Cerchiamo un divano e una poltrona asciutti con un tavolino in mezzo. Prendiamo posto a un metro di distanza, togliamo le mascherine. Allora riconosco l’uomo fatto di 37 anni che ha gli occhi spalancati e vividi di un bambino.
Credi che in un momento storico come questo la musica e l’arte possano giocare un ruolo impegnato?
«È un’epoca estremamente commerciale: facciamo moltissimo rumore per pochissimo tempo. I video delle esplosioni al porto di Beirut hanno fatto il giro del mondo provocando una reazione immediata. E poi? Zero. ̋ Next ̋ dicono gli algoritmi, non interessa più, gli utenti stanno già guardando una nuova influencer. Per questo ho voluto rispondere con I love Beirut . Non possiamo rimanere indifferenti. Di fronte a quel che sta succedendo in America, a un presidente come Trump che erode la democrazia, nessuno può restare neutrale. La musica, come l’arte, ha la responsabilità di raccontare. Ma, in un’era in cui la soglia di attenzione è minima, non è facile essere duraturi, delicati, originali. La domanda è: come ribellarsi? Io sto cercando di essere sempre più... in francese si dice: plasticien».
Mi chiede la traduzione in italiano, azzardo: duttile? Lui tira fuori il telefono per consultare un dizionario. Trova la soluzione, me la comunica in inglese e poi continua a parlarmi tranquillamente in questa lingua. Lo farà spesso durante l’intervista: passare con disinvoltura da un idioma all’altro. E io gli invidierò la ricchezza di culture senza confini, in cui intravedo il futuro che vorrei.
Un cameriere ci raggiunge timidamente. Mika mi guarda e sorride: «Che dici, ordiniamo?». Scorre il menù, esclama entusiasta: «Wow! Prendiamo un po’ di cose e le mettiamo al centro? La parmigiana, il vitello tonnato, ti piacciono?». Sì, e mi piace la naturalezza con cui mi propone questo pranzo condiviso che attenua la distanza rigorosa tra noi.
Quando arrivano i piatti, lo osservo mangiare di gusto. È una celebrità internazionale della musica pop, un uomo televisivo libero ed eclettico. Ma è anche un adulto consapevole con i piedi per terra, a cui la fama sembra non aver fatto un graffio. E, ancora, dal suo volto traspare un ragazzino sfuggente, incantato e curioso. Nel poco tempo che abbiamo, vorrei trovare la chiave di questa polifonia.
Sei venuto al mondo, anche artisticamente, come progetto di tua madre. Il tuo nome d’arte, Mika, è lo stesso con cui ti chiamava lei da bambino. Solo nell’ultimo disco, «My name is Michael Holbrook », ti sei restituito il nome di battesimo. Senti di essere diventato anche altro da un figlio?
«Questo è stato il mio progetto, solo mio. Certo, forzato dalla vita. Mi sono dovuto confrontare con la malattia di mia madre. Ho sentito l’esigenza di farlo bene, di rendere omaggio anche alla paura e alla tristezza». Si volta a guardare le siepi perfettamente potate, gli alberi secolari. Rimane in silenzio. «Mi spezza il cuore il fatto che, quando parlo con lei, spesso non mi può rispondere. E cosa fai quando la persona che ami così tanto e che ha sempre condiviso il tuo progetto non ti risponde più? Quando lavoravamo a Casa Mika , lei era lì, in sedia a rotelle, fino alle 3 del mattino, ogni giorno. Mi diceva: “Attento, non fare una cosa finta. Questo non è credibile, non è onesto”. Non era una manager, era una guida».
Com’è stata la tua gavetta insieme a lei?
«Ho ricevuto rifiuti imbarazzanti. Mia madre mi forzava a entrare negli uffici delle major per far ascoltare i miei demo alle donne sedute alla reception. Lei aspettava fuori, io schiacciavo il tasto play dello stereo portatile e ripetevo ogni volta le stesse frasi: “Ho anche una versione senza la voce. Se volete, canto live”. Quasi sempre mi buttavano fuori. A volte però mi trovavano interessante, così salivo di piano. Da ragazzino sono riuscito ad arrivare al quarto. All’ultimo, dove si firmano i contratti, ci sono arrivato più tardi, a 22 anni». Chiude gli occhi sorridendo, come se rivivesse la beatitudine di quell’approdo. «Ma all’inizio non sapevamo cosa fare, mia madre e io. Lo decidevamo insieme, volta per volta. Mi rivedo a 10 anni, che piango disperato nei bagni della Royal Opera House di Londra perché, dopo tre settimane di prove, mi ritrovo ancora a fare la riserva, quello che canta solo se un altro è malato. Lo avevo fatto per anni, ero stufo. Mia madre mi guarda: “Sei così arrabbiato?”. Sì!, grido. Allora mi prende di peso, mi piazza nel corridoio, mi ordina: “Canta!”. Ubbidisco, e un’ora dopo prendo la posizione principale. Adesso ero io ad avere una riserva». Ride.
Come ha capito, tua madre, che avevi questo dono per la musica?
«Non è che avessi un dono». Fa una smorfia, come se la parola lo disgustasse. «Lei aveva intuito che insieme potevamo essere architetti dei nostri sogni. Me lo ripeteva sempre: “Se riuscirai a costruire il mondo che desideri, potrai svegliartici dentro ogni mattina. A patto che sia credibile”».
È lo stesso sogno su cui avete fantasticato nel periodo più buio? Dopo la Guerra del golfo, quando tu e la tua famiglia siete arrivati a dormire in auto fuori dai teatri per accompagnarti alle prove?
«Nella Toyota Previa bianca. Abbiamo fatto il giro d’Europa su quella macchina. Era la nostra bolla di teletrasporto. La chiamavamo kabus. Ha percorso 197.000 miglia, non chilometri. Adesso non può più circolare, ma ogni anno spendo uno sproposito per mantenerla in vita e non lasciarla andare. L’ho persino trasferita in un capannone che ospita auto di lusso. La tengo là come fosse una Ferrari».
Provo a immaginarlo con i genitori, le tre sorelle e il fratello, sette persone strette nella Toyota per seguire il lavoro-sogno di Mika. «Era anche un luogo triste» precisa lui. «Avevamo perso ogni certezza, non solo economica. I miei genitori litigavano. Ma con il tempo abbiamo costruito un equilibrio e ci siamo divertiti. Quando abbiamo cominciato a girare il mondo in aereo, lo spirito originario si è mantenuto, la nostra carovana ha solo cambiato forma. Jasmine e Paloma, le mie sorelle maggiori, hanno da subito lavorato con me. Ma in ogni mio viaggio c’è sempre stato posto per tutti i membri della famiglia. E così» sorride malizioso «pure il mio compagno si è dovuto adattare».
In effetti, mi pare di capire che la presenza della tua famiglia sia un po’ ingombrante...
«Sì, ma per fortuna lui ne riconosce la ricchezza. Io sono il prodotto di una lunga storia di immigrati con la mitologia del proprio paese nello zaino e lo slancio verso il futuro. Beirut per me rappresenta la possibilità di convivenza in una parte del mondo che incoraggia la separazione. Mio nonno materno ha viaggiato molto, è emigrato a New York per poi rientrare in Libano. Quello paterno era un diplomatico, appassionato di jazz e amico di Nina Simone. La mia famiglia tiene insieme tutto: Est e Ovest, Nord e Sud. La verità è che siamo io e il mio compagno la coppia più tradizionale: stiamo insieme da 15 anni».
Come ci siete riusciti?
«Tra noi c’è stata da subito grande tensione, che è più importante dell’amore. L’amore è un gioco di luci che a volte si rivela evanescente. Sul lungo periodo contano la collaborazione, il saper giocare insieme».
Non pensate di sposarvi?
«Non sentiamo il bisogno di un permesso o di un abito. Però sostengo con forza la necessità di dare a tutti la possibilità di scelta. Alla Westminster School, io e i miei amici avevamo fondato un magazine satirico che si chiamava Pink . Il rosa era il colore ufficiale della scuola, i membri della squadra di canottaggio indossavano una cravatta rosa sopra la divisa. Ma per noi era il colore della libertà sessuale, e la rivista un modo per essere dissacranti e scrivere ribaltando le regole prestabilite. Non credo che le nostre vite debbano essere influenzate dai giudizi personali altrui. Questo vale per il matrimonio, ma anche per i figli: desidero la possibilità. Quanto a me, ritengo che il mio lavoro, i miei ritmi, siano difficilmente conciliabili con un bambino. Per ora mi accontento di fare lo zio».
Ho una teoria: che ogni passione abbia origine da un vuoto che cerchiamo di colmare. Se non avessi vissuto una situazione dolorosa da bambino, credi che la tua musica sarebbe nata lo stesso?
«No. Ho usato prima l’espressione urgenza del racconto. Credo che in me sia nata quando mi è mancata la voce e mi sono sentito impotente rispetto a ciò che volevo dire. Volevo combattere la sensazione di avere il volume spento. Ero dislessico, avevo grossi problemi a scuola». Si concentra: «Durante l’infanzia a Parigi vivevamo in una bolla: la comunità di Beirut. Ogni sera, dal giovedì alla domenica, gli adulti si ritrovavano in salotto a discutere di politica, a stilare l’elenco degli amici e famigliari persi, delle case distrutte. Noi bambini ascoltavamo. Era un sottofondo di guerra, ma anche una ricchezza. Nel sistema scolastico francese mi trovavo bene, studiavo musica. Poi...».
Riprende fiato. «Il sequestro. Papà resta bloccato nell’ambasciata del Kuwait. Torna dopo 8 mesi, ma intanto per noi è crollato tutto. Siamo costretti a lasciare Parigi perché non siamo in grado di pagare l’affitto. Ci ritroviamo a vivere in un B&B a Londra, dove mia madre lavora in cucina e alla reception mentre papà cerca un nuovo impiego. Io, dalla piccola scuola parigina frequentata da un centinaio di studenti, finisco in una con 1500 iscritti, piena di intolleranza e bullismo. Tutti questi cambiamenti mi hanno tolto la voce. Non leggevo, non scrivevo più. Ho avuto anche la sfortuna di incontrare una professoressa che umiliava gli studenti. Una mattina mia sorella Paloma trova il mio zaino di fronte a casa: ero così demoralizzato che lo avevo abbandonato in strada. Viene a scuola per riportarmelo, entra in classe e vede coi suoi occhi quello che io non potevo raccontare». Si interrompe.
Cosa ha visto? Se vuoi dirlo.
«Me, costretto a stare fermo, in piedi sul banco, per quaranta minuti. Impossibilitato ad andare in bagno, anche se questo poi significava farsi la pipì addosso. In seguito, mio padre ha affrontato duramente l’insegnante, e io ho lasciato la scuola».
È reagendo a questo dolore che nasce Mika?
«Mia madre ha preso in mano la situazione: “Devi cantare”. Ogni pomeriggio per quattro ore una prof russa m’insegnava Schubert, Strauss. Siccome non leggevo lo spartito, mi ripeteva all’orecchio per due volte una canzone, io la memorizzavo. Questa velocità mi ha permesso di lavorare presto. E il lavoro mi ha restituito valore».
La scuola è sempre stata per me sinonimo di riscatto. Per te ha significato l’opposto?
«Tempo dopo ci siamo trasferiti in una casa che condivideva il giardino con una piccola scuola, la St. Philip. I ragazzi facevano lezione e guardavano di traverso me che giocavo sul prato. Finché un giorno il direttore è venuto a bussarci. “Suo figlio parla inglese?”, ha chiesto a mia madre. “Sì”. “Legge?”. “No”. “Scrive?”. “No”. “Be’, tu puoi soltanto migliorare” mi ha detto ridendo. Il mio colloquio d’ingresso è stato un disastro, ma grazie a lui ho ricominciato ad andare a scuola, e la St. Philip mi ha lasciato tre pomeriggi liberi la settimana per cantare».
A proposito, è vero che il tuo esordio nel 2007 è avvenuto tramite Myspace?
«Vero. Nessuno capiva i miei demo. Così sono andato da Jasmine e le ho detto: “Facciamo finta che io sia già famoso”. Abbiamo allestito una presentazione curatissima: shooting professionali, biglietti disegnati a mano. Ogni cd era confezionato con nastri di seta rossa. Mi sono perfino intervistato da solo!».
Ridiamo. «Quindi ho presentato i demo alle etichette discografiche e ho firmato un contratto con la Universal. Solo che non sapevano come lanciarmi. Allora ho aperto una pagina su Myspace, ci ho messo un po’ di canzoni. Un giorno un blog che non esiste più, Popbitch , ha parlato della mia musica come di una rivelazione e mi ha fatto passare, in 24 ore, da 4.000 ascolti a 250.000. Poi una radio di Stoccolma ha rubato Relax dal mio profilo...».
E sei stato catapultato in un successo planetario.
«Sì, con una cosa fatta in casa». Per un istante torno con la mente a una notte d’estate di 13 anni fa, a una discoteca vicina al mare non troppo distante da qui, in cui io, come tutti, ballo e canto: Relax, Take it easy. Mi fa effetto pensare che adesso siamo qui, e siamo entrambi adulti.
Come si vive dopo un esordio così?
«Eh. Il mio era un progetto ambizioso, ma in fondo era anche intimo. Adesso avevo trovato un grande pubblico, ma l’idea di dovermi ripetere immediatamente con un nuovo successo era spiazzante. Non avevo una band, né altri autori a darmi una mano. Eppure, lo ricorderò sempre, quando una casa discografica mi ha chiamato per dirmi: “Ti abbiamo organizzato tre settimane con questi autori, i più forti del mondo”, io prima ho accettato, poi, a due giorni dall’incontro, ho annullato tutto. Mi sono detto: anche se rischio di non risultare efficace dal punto di vista commerciale, preferisco continuare a fare le cose a modo mio. I discografici hanno pensato che fossi matto, e forse lo sono».
La mia impressione è che quello che viene richiesto dal mercato sia impossibile, insensato. Performare sempre, come se fosse questo ciò che conta...
«Ma conta» ribatte subito. «E se prendi la decisione di non seguire i parametri, devi difendere la tua posizione, giustificarla con il tempo, con creatività. Certe strade ti permettono forse di diventare più famoso, più ricco. Io però non ho mai avuto dubbi. La discriminante per me non è quello che conta, ma quello che mi rende felice».
Questa è un’epoca in cui tutti veniamo chiamati, sui social e non solo, a sacrificare noi stessi pur di piacere agli altri. Tu pensi che occorra non piegarsi?
Mika osserva i passerotti che ci circondano e saltellano vicino a noi, in particolare a me: mentre lui ha pranzato, io non ho mollato un secondo la Bic e il mio piatto è mezzo pieno. «Sì, sì e sì, ti rispondo. Ma la questione è più complessa. Sacrificare sé stessi, in un senso o in un altro, è qualcosa che bisogna fare. Lasciar andare il proprio ego ogni volta che si pubblica un romanzo, un disco. Ma è molto difficile trovare il coraggio di essere sé stessi se ti mancano gli strumenti. Per essere fedeli a sé stessi, o meglio, per diventare sé stessi, c’è bisogno di formazione e istruzione. È questa mancanza che leggo a volte nei social: la mediocrità che ci rende manipolabili. Io sono cosciente di tante mie lacune e mi do da fare per colmarle, per rimanere curioso. Potrà suonare snob, ma per me la cultura coincide con la liberazione».
Non solo non trovo snob quello che dice, ma lo condivido in pieno: è ciò in cui credo di più.
Siamo qui da due ore, il cameriere torna per portare via i piatti e provo in extremis a finire la mia parmigiana.
A cosa stai lavorando?
«A tre EP diversi, a cui mi sto dedicando intensamente. Poi c’è un progetto che mescola video e musica. Infine, un’installazione in uno spazio che non posso svelarti, ma dove si troveranno tutte le arti a cui mi piace lavorare: musica, sound, luci, scenografia, vestiti».
Tua madre resta la prima giudice del tuo lavoro?
A Mika sfugge un sorriso amaro. «Vorrei scuoterla, gridarle: dimmi cosa pensi! Ma non si può forzare la vita. Quando un corpo viene attaccato dalla malattia...».
È difficile per tutti, credo, ritrovarsi più forti dei propri genitori.
«Questa estate, per un istante, ho pensato la stessa cosa. Ma sai cosa mi sono risposto? Che anche se mia madre stava perdendo la forza fisica, i suoi occhi rimanevano fortissimi, più forti di quelli di molte persone più giovani e sane di lei. Diamo troppa importanza al corpo invece di pensare all’anima. È l’anima di una persona che resta. E noi abbiamo la responsabilità di capirla e tradurla nel nostro lavoro, permettendole di continuare a esistere».
Lei è il più grande amore e motore della tua vita?
«No» risponde deciso. «È una presenza che ha dato a me, a mio fratello e alle mie sorelle, una grinta e un senso di coesione, di valori, che ci ha permesso di crescere».
Ci alziamo, sentiamo entrambi che è il momento. Il parco intorno è così maestoso che decidiamo di attraversarlo passeggiando con questo metro di distanza che però, adesso, avverto breve come un centimetro. Quando lasciamo il Fours Seasons, indossiamo di nuovo la mascherina. Lui aggiunge il cappello e torna irriconoscibile. Mi chiede: «Sei in macchina?». No, in treno. «Allora ti accompagno».
Così ce ne andiamo per le vie e le pozzanghere, come fosse la cosa più naturale del mondo. Mika si ferma di fronte alla vetrina di un robi-vecchi dove un signore suona al pianoforte un motivetto sconosciuto. Io sbircio lui che ascolta e mi pare che abbia una confidenza così profonda con l’Italia, da risultare commovente.
Sbuchiamo in piazza del Duomo, rimaniamo incantati ad ammirarlo come se lo vedessimo per la prima volta. Firenze non è mai stata così silenziosa e vuota di turisti, intima e quasi sospesa. In questa sospensione, nel venir meno di tutte le certezze a cui abbiamo dovuto far fronte nel 2020, sono d’accordo con Mika: non è quello che conta, ma quello che ci rende felici, a tracciare la strada.