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 2020  ottobre 23 Venerdì calendario

Fabrizio Gifuni palestrato e cattivo. Intervista

Il Fabrizio Gifuni che non ti aspetti è un reduce dei reparti speciali, abituato a inseguimenti adrenalinici, scazzottate, a suo agio in luoghi frequentati da gente molto pericolosa: Leonida Riva, detto La Belva, che dà il titolo al film (in sala  dal 26 al 28 ottobre per Warner Bros che lo ha prodotto con Groenlandia). Un uomo segnato nel fisico e nello spirito, un lupo solitario che fa fatica a mantenere contatti con il prossimo, compresi i suoi due figli. E che dovrà mettere in gioco tutto, muscoli e cuore, per proteggere una persona amata. Il primo a stupirsi è il diretto interessato. «Quando il regista Ludovico Di Martino e il produttore Matteo Rovere me lo hanno proposto, stentavo a crederci. Belva io? Ma loro non avevano dubbi, una scelta controcorrente rispetto alla pigrizia di cui è affetto spesso il cinema italiano». 
Cosa le hanno detto? 
«Per noi sei il nostro Liam Neeson, che fa teatro e cinema d’autore. È un film d’azione ma con attenzione ai legami tra i personaggi, alle relazioni familiari. Non ci interessa un attore palestrato». 
Avrà fatto però palestra. 
«Eccome! Una preparazione rigorosa di cinque mesi. A parte i muscoli, devi fluidificare i passi, come una coreografia. Mi hanno messo letteralmente nelle mani dei migliori trainer, Emiliano Novelli e Paolo Antonini. Palestra cinque volte a settimana. E dieta, durissima per me che sono una buona forchetta. Per sei giorni niente dolci e pasta. Per fortuna il settimo giorno ero libero. È un film arrivato al momento giusto». 
Perché? «Nell’autunno 2018 avevo deciso dopo 25 anni di lavoro ininterrotto di fermarmi per un anno. Ero stanco, era morto mio padre da poco a cui ero molto legato, dovevo ritrovare energia. E grazie a La belva ho scoperto una cosa di me». 
Ovvero? 
«Che a 54 anni che mi piace menare le mani e fare i testacoda con le auto. Ho capito quanto può essere bello fare James Bond. Anche da bambino al massimo avrò dato due calci, è stato molto liberatorio farlo attraverso il cinema». 
Momenti difficili sul set? 
«La scena più complessa è stata un piano sequenza in cui affronto dodici persone scendendo tre rampe di scale. Girata cinque volte, in un ciak ho preso una capocciata sul naso, si è sentito il crock. Per fortuna, tutto bene». 
Il regista ha solo 28 anni. 
«Magnifico, grande talento e sicurezza. Bellissimo essere guidati da uno che potrebbe essere tuo figlio. Le più grandi sostenitrici del film sono state le mie figlie, fan di Ludovico per la terza stagione di Skam. Ho avuto la fortuna di lavorare con i maestri, Giuseppe Bertolucci, Amelio, Bellocchio, Cavani, Giordana e con registi della mia generazione. Ora con i giovani, bel passaggio». 
Chi è Leonida Riva? 
«Affascinante, eroe e antieroe. Un eroe ammaccato, sofferente, anche fisicamente, è uno dei tanti ex, fantasmi di quelle che non possiamo chiamare guerre, che hanno veste di missioni umanitarie. Si è fatto una trentina d’anni di missioni a alto rischio tra Yugoslavia, Iraq Somalia. L’etica del reduce è un topos del cinema americano che li ha sempre magnificati e onorati, facendoli diventare eroi sullo schermo, dal dopoguerra fino a Rambo. Da noi sempre un po’ nascosti: non sappiamo che vita fanno, sono tenuti al riserbo assoluto e questo li sottopone a pressioni psicologiche durissime». 
Ha terminato le repliche di «Con il vostro irridente silenzio» sul memoriale di Moro. Lo riprenderà? 
«A Firenze in gennaio. Resto un uomo di teatro, ho fiducia nei testi, penso che ci raccontino di più di quanto non siamo disposti a credere. Le lettere di Moro restituiscono il ritratto straordinario di cosa sia un uomo di stato».