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 2020  ottobre 23 Venerdì calendario

1QQAFM20 Su “Il tempo della rivolta” di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)

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Donatella Di Cesare ha scritto un libro di poesia: Il tempo della rivolta (Bollati Boringhieri). L’autrice ripensa, in una modalità lirico-apocalittica, una questione antichissima: la «psicologia delle folle», per dirla con il celebre saggio di Gustave Le Bon (1895). Il suo punto di vista, in questo rivivimento della esplosione violenta delle folle («le folle cosiddette criminali» del saggio di Le Bon), è che, nel tempo presente, l’esplosione (la «rivolta» appunto) sarebbe caratteristica dei soggetti marginali o marginalizzati. Perciò insiste molto sulla contrapposizione tra l’arroccamento, come essa scrive, «statocentrico» dei più e le esplosioni «anarchiche» dei marginali. Esplosioni che non possono spiegarsi soltanto con «i motivi contingenti» che paiono scatenarle, ma che esprimono «un malessere impreciso, un disagio vago ma assillante» rivelatore di «tutte le aspettative deluse». Perciò l’autrice evoca «gli insorti che sparavano contro gli orologi» – fenomeno ben noto di inconcludente «luddismo» – e suggerisce anche (e qui più che mai entra nel campo della poesia) che «la rivolta sconfina nella festa». Nella pagina finale si coglie quasi un elogio dei Saturnali romani, durante i quali «le regole non sono semplicemente cancellate, piuttosto si spezza quel nesso tra mezzo e fine che scandisce la consueta produttività dei giorni» e «si affranca l’agire dall’economia». Onde – conclude – la rivolta «invita a un altro modo di abitare il tempo» ed è perciò «laboratorio del riscatto, tempo di liberazione». 
La sintomatologia che questo libro vuol descrivere era, invero, ben delineata in grandi classici: i capitoli del Manzoni sulla rivolta milanese (l’assalto ai forni che eccita Renzo Tramaglino all’azione ribelle); o i capitoli di Tucidide sull’impazzimento morale conseguente al contagio pestilenziale, e così via. Ogni generalizzazione avrebbe bisogno di una esemplificazione concreta: non a caso i grandi che abbiamo ora ricordato partono da un caso concreto e, nel descriverlo, fanno emergere la sintomatologia della «esplosione» anarchica (di norma inevitabilmente effimera). La storia sin qui conosciuta è costellata di «rivolte» le cui caratteristiche sono appunto quelle in questo libro sunteggiate: il precipitare in forma violenta, e apparentemente liberatoria, di un malcontento che si accende a partire da un singolo «pretesto» e che perciò lo trascende. 
L’autrice si chiede anche se nel prossimo futuro avrà la meglio «la parziale soddisfazione delle richieste» (da cui è scaturita la rivolta) o se invece «le lotte si diffonderanno e si radicalizzeranno»; e delinea un bivio: tra «rabbia cieca senza domani» e «scintilla destinata a divampare». Viene alla mente il dialogo (reale o immaginario) tra Luigi XVI e il suo ministro nel fatidico 1789; il re chiede se sia esplosa una «rivolta» e gli viene risposto: «No, è una rivoluzione». 
Molto di rado le rivolte diventano rivoluzioni. Semmai il problema è: in che misura – e perché – le rivoluzioni divengano sempre meno possibili mentre le rivolte esplodono sempre più di frequente (con risultati per lo più nulli). A questa linea di tendenza dello sviluppo storico hanno contribuito molti fattori: nel secolo XIX, dopo la «primavera dei popoli» del 1848, nel Paese più affetto da rivolte debordanti in rivoluzioni (la Francia, in realtà soprattutto la sua capitale) il potere politico provvide ad allargare a dismisura le strade per rendere impossibili le barricate (il prefetto Haussmann). Era una risposta «tecnica» al malessere sociale ed al suo esito politico che in parte funzionò: la Comune sorse sulla sconfitta militare e fu schiacciata dall’esercito. La macchina statale è divenuta da allora sempre più forte: l’ultima rivoluzione europea fu l’Ottobre 1917 a Pietrogrado, che fu il risultato non solo di una notevole direzione militare dell’insurrezione, ma anche (e soprattutto) di una serie di circostanze concomitanti (disgusto di massa per la guerra disastrosa etc.). Ma già la rivolta spartachista di Berlino (gennaio 1919) fallì in pochi giorni e non riuscì a prendere, in nessun momento, le fattezze della rivoluzione. Nei vent’anni tra il 1927 e il 1949, invece, una rivoluzione di tutt’altro tipo (lenta e capillare) si produsse in un mondo (la Cina) diversissimo da quello emblematicamente rappresentato da Parigi, Pietrogrado, Berlino. Segno della inevitabile mutazione del concetto stesso di «rivoluzione». 
La questione qui posta – se e quando una rivolta divenga rivoluzione – fu affrontata con finezza da un grande storico, Edward Hallett Carr, nell’unico scritto in cui egli si concesse una riflessione di carattere teorico (What is History? tradotto in italiano col titolo Sei lezioni sulla storia nel 1966), in quel capitolo iniziale incentrato sul tema: quando un «fatto» (uno dei miliardi di «fatti» che avvengono nella realtà) diventa «un fatto storico»? E portò l’esempio dei destini storiografici dell’uccisione violenta (un’«esplosione» anche quella di una folla inferocita) di un venditore di pan pepato a Stalybridge Wakes nel 1850. L’altra questione a cui si dovrebbe fare capo quando si studia il ribellismo che pervade il mondo attuale (in pari misura che i millenni precedenti della storia umana conosciuta) è se l’approdo deludente delle «rivoluzioni» del secolo XX non abbia contribuito al moltiplicarsi del ribellismo fatalmente di corto respiro (e sempre più violento). Difficile valutare quanto sia ingannevole il ragionamento di coloro che prevedono che comunque un nuovo ciclo di razionalità rivoluzionaria possa aprirsi dopo l’esaurirsi del ribellismo sterile, sì da lasciarsi alle spalle la condizione attuale: in cui – come scrive l’autrice – «il capitalismo trionfa sulle macerie delle utopie». Machiavelli insegna che il «cerchio in cui tutte le repubbliche si sono governate e si governano» non può replicarsi indefinitamente, «perché – spiega – quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede».