il Giornalista, 23 ottobre 2020
Una mostra sugli Oscar Mondadori
Quando il vecchio Arnoldo Mondadori, il primo a essere sbalordito per l’incredibile successo dei suoi Oscar, volle sintetizzare il segreto dell’iniziativa per riferirlo al Direttore generale dei Servizi di informazione della Presidenza del Consiglio, Giuseppe Padellaro, dettò il seguente telegramma: «Primo: aver creato nuovi canali di vendita. Secondo: offerta opere alto valore letterario. Terzo: aver fede, costanza, coraggio nelle imprese nelle quali si crede». Era il 21 maggio 1965. Gli Oscar erano nelle edicole da un mese. E le avevano già colonizzate. Niente sarebbe stato più come prima.
Gli Oscar della Mondadori – una collana economica, a cadenza settimanale, ad altissima tiratura e già allora mass marketing – cambiarono il modo di leggere. La Mondadori, semplicemente, con gli Oscar voltò pagina. Grafica semplice e moderna, copertine di taglio cinematografico, paratesti ridotti al minimo, il meglio del meglio della letteratura mondiale, a 350 lire (l’equivalente di un biglietto per il cinema: ecco perché il nome Oscar), che si trovavano in qualsiasi edicola senza dover entrare in libreria, cosa a cui molti italiani non erano abituati (e non sono ancora). Insomma, il libro a portata di mano dei lettori deboli e occasionali: impiegati, operai, casalinghe, studenti con tanto tempo e pochi soldi. Una formula perfetta.Prima (perfetta) collana italiana nella storia dell’editoria a esordire nelle edicole, prima collana a pianificare un nuovo sistema di diffusione della cultura, e prima collana a vendere a tutti l’alta letteratura a prezzi bassi (libri tascabili usa-e-getta da comprare dal giornalaio e leggere in piedi sul tram) gli Oscar debuttarono il 27 aprile 1965. L’appuntamento era quello dei rotocalchi: ogni sette giorni, fra capolavori della letteratura (Davide Copperfield di Charles Dickens, uno per tutti), storie trascinanti (Fermento di luglio di Erskine Caldwell, ad esempio), scrittori famosi (tantissimi), intrattenimento di ottima qualità (Giungla d’asfalto di W.R. Burnett per citarne uno), romanzi legati a pellicole popolarissime (Jules e Jim di Henri-Pierre Roché, noto al grande pubblico per il celebre film di François Truffaut). E fu così che se anche qualche intellettuale storse il naso («Kafka e De Maurier, La bella estate e La signora Miniver mischiati insieme producono un cocktail che può fare male, dare allo stomaco, provocare una specie d’ubriachezza a sfondo depressivo», fece notare qualcuno), il «libro a prezzo fisso» diventò di massa. E il successo fu così scioccante che un giovane redattore di una casa editrice (concorrente), ironizzò sconsolato: «Verrà il tempo in cui basterà ingoiare una pillola. Una pasticca gialla, per esempio, sciolta in un po’ di caffè: e sarà come aver letto tutto Kafka. Pillole azzurre per Bacchelli, rosse per Brecht, nere per Ezra Pound, viola per Proust... Comprate la compressa viola della Recherche!».Del resto, come recitava lo slogan della collana, qualsiasi cosa tu voglia leggere «Negli Oscar c’è».E oggi, in fondo, negli Oscar c’è davvero tutto (e anche la collana c’è ancora). Considerando tutte le sottocollane di tutte le epoche, dai «Bestseller» ai «Classici Greci e Latini», si calcola siano stati pubblicati oltre 15mila titoli e che – fino al 1985, oggi la cifra è probabilmente incalcolabile – siano state vendute 120 milioni di copie. Abbastanza per entrare nel mito (a proposito: nel 1995 la Mondadori varò un’altra nuova collana di tascabili supereconomici: si chiamavano i «Miti»). E abbastanza anche per entrare in una mostra. La prima mai fatta: questa – Libri da Oscar. Come nacque la più popolare collana editoriale italiana – che si apre, non per caso, a Luino.La mostra vuole raccontare la nascita dalla più famosa collana dell’editoria italiana, che fu inventata da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo (con alcuni consigli di Raffaele Crovi...), e soprattutto dal poeta Vittorio Sereni, luinese, il cui archivio oggi è conservato proprio a Palazzo Verbania di Luino. Non solo. Il primo titolo della collana, portato in edicola quel 27 aprile 1965, fu Addio alle armi di Ernest Hemingway. Il romanzo – uscito negli Stati Uniti nel 1929, arrivato in Italia nel 1945 ma già da anni nel catalogo Mondadori – per gli Oscar fu stampato in 60mila copie, che andarono tutte esaurite nel primo giorno. Bene. L’aspetto curioso è che quando Hemingway, verso la fine del romanzo, racconta la fuga in barca del protagonista (il giovane tenente Frederic Henry, alter ego dell’autore) attraverso il Lago Maggiore verso la Svizzera, una notte della Prima guerra mondiale, scrive: «Remai tutta notte, le mani finirono col dolermi tanto che a stento tenevo i remi. Certe volte eravamo lì lì per lasciarci sbattere a riva (...) Poi il vento strappò le nubi così che apparve la luna e potei vedere dietro di noi la Castagnola e il lago bianco di onde, più indietro la luna sopra la neve delle montagne; poi la luna sparì di nuovo sotto le nubi, e non vidi più il lago né le montagne ma restava più chiaro di prima, e si scorgeva la sponda. La si scorgeva fin troppo. Remai verso il largo, non desideravo che anche la barca fosse visibile dalla strada. Quando tornò la luna apparirono alcune ville candide in alto sulla riva, e la strada era bianca tra gli alberi. Non smisi mai di remare. Il lago si allargò: sulla sponda opposta, ai piedi delle montagne, vedemmo luci che attribuii a Luino. Una breccia a forma di cuneo si apriva tra le montagne e là doveva essere Luino. Se era davvero Luino avevamo camminato bene. Lasciai i remi. Mi sentivo stanchissimo».Quelle luci di Luino erano dell’unico edificio illuminato, di notte, durante la Prima guerra mondiale: il Kursaal. Oggi Palazzo Verbania. E torniamo così, con il primo Oscar, di Ernest Hemingway, dove tutto era partito. Cinquantacinque anni fa.