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 2020  ottobre 23 Venerdì calendario

Ayatollah e talebani tifano per Trump

«Crediamo che Trump vincerà le prossime elezioni perché ha dimostrato di essere un politico che ha mantenuto tutte le grandi promesse che aveva fatto al popolo americano». Di questo aperto elogio, quasi sperticato, il presidente americano Donald Trump, impegnato nelle ultime battute di una frenetica campagna elettorale, avrebbe fatto volentieri a meno. Non delle parole, quelle no, ma da chi le ha dette pubblicamente in un’intervista con un noto media americano: ovvero lo spietato movimento dei talebani.
Questa agguerrita organizzazione di estremisti islamici ha portato avanti una guerra contro gli Stati Uniti lunga 19 anni, mettendo a soqquadro il Paese, uccidendo 2.372 soldati americani e macchiandosi di atroci crimini anche contro i civili.
Eppure, l’imponderabile si è avverato. Dopo una serie di negoziati segreti tra delegazioni americane e talebane, in febbraio Trump è riuscito a strappare una sorta di “patto”, qualcuno lo ha impropriamente definito accordo di pace. L’impalcatura su cui si regge appare semplice: tutte le truppe americane lasceranno il Paese in primavera, per contro i talebani si impegnano a non accogliere sul loro territorio formazioni terroristiche islamiche, come al-Qaeda e Isis, e a non collaborare con loro a nessun titolo. Al contempo avvieranno negoziati con il governo di Kabul, loro storico nemico considerato un pupazzo dell’Occidente, al fine di pervenire a un accordo di spartizione dei poteri che ridia un embrione di stabilità a questo Paese che anche quest’anno ha visto finora 2.100 civili uccisi.
In una campagna elettorale che lo vede ancora indietro rispetto al candidato democratico Joe Biden, Trump ha ribadito la scorsa settimana che tutte le truppe saranno «a casa per Natale». Più realisticamente il segretario di Stato Mike Pompeo ha parlato di ritiro completo entro l’aprile 2021.
«Noi speriamo che Trump vinca le elezioni e che metta fine alla presenza militare americana in Afghanistan», ha dichiarato nove giorni fa Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani. Oggi le truppe americane nel Paese sono circa 5mila, presto scenderanno a 2.500. Ma anche un numero così piccolo può fare la differenza, soprattutto in funzione deterrente. Quando Trump un anno fa ha deciso di ritirare i mille marine presenti in Siria settentrionale, territorio allora controllato dagli alleati curdo-siriani, la Turchia non ha esitato a portare avanti campagne militari molto vaste e conquistare parte di questi territori. La Siria, assistita da milizie filo-iraniane e dagli hezbollah libanesi, oltre che dall’aviazione russa, ha fatto altrettanto. Il vuoto lasciato dagli Usa è stato un vuoto molto instabile.
Senza contingenti di militari stranieri la situazione in Afghanistan potrebbe presto precipitare. Ecco perchè Biden ha ribadito in settembre che manterrà un contingente ridotto di truppe. Cosa che i talebani rigettano a priori. Trump, invece, vuole passare alla storia per esser stato il presidente che ha messo la parola fine alla guerra più lunga, e tra le più costose, combattute dagli Stati Uniti. Ma è davvero finita? La tenuta dell’accordo è tutta da verificare. E se per i talebani si tratta comunque di una grande vittoria, l’onorevole ritiro dei militari americani pensato dagli strateghi del presidente somiglia più a una sconfitta.
Al di là delle recenti accuse mosse all’Iran da parte dell’Fbi, di voler interferire nelle elezioni americane, la situazione a Teheran non è così scontata come appare. Senza uscire allo scoperto, senza elogi e apprezzamenti come i talebani, vi sono altri nemici degli americani, di gran lunga più pericolosi, che in parte sperano in una vittoria alle elezioni dell’uomo che ha prima, nel 2018, fatto carta straccia dell’accordo sul nucleare (Jpcoa), poi ha comminato le sanzioni più dure di sempre, infine ha fatto eliminare in un raid aereo uno dei personaggi più popolari e potenti dell’Iran: il generale Qasem Soleimani portando i due Paesi vicino a un conflitto aperto.
Proprio in Iran l’esito delle elezioni americane eserciterà cambiamenti molto profondi, a seconda che vinca Biden o Trump. L’economia è in ginocchio (la recessione era già iniziata a fine 2018), strozzata dalle sanzioni alle quali si è aggiunta la pandemia di Covid, particolarmente severa in questo Paese. Mancano medicinali, beni di prima necessità, importare apparecchiature mediche è molto difficile.
Trump presumibilmente continuerà con la strategia della «massima pressione», volta a un inasprimento delle sanzioni. Il fine ufficiale sarebbe quello di portare con la forza l’Iran al tavolo negoziale, facendo firmare a Teheran un accordo molto meno favorevole del precedente e che contenga severamente la sua espansione militare nel Golfo Persico. Anche se non dichiarato ufficialmente, l’obiettivo più ambito è quello mai raggiunto da nessun presidente Usa: un cambio di regime a Teheran. Oltre, naturalmente, a un sostegno ancor più deciso alla politica anti-iraniana portata avanti da Israele e Arabia Saudita.
La situazione sul fronte politico iraniano non gioca a favore del dialogo. Usciti molto rafforzati dalle elezioni parlamentari dello scorso febbraio, molti oltranzisti e parecchi conservatori puntano a innalzare la strategia della tensione con Washington. Cosa che consentirebbe di riunire la nazione, oggi profondamente divisa e irritata con le autorità per la gestione della crisi economica e della pandemia, e renderla compatta davanti al “nemico comune”. In quest’ottica puntare a piazzare un presidente falco alle importantissime presidenziali del prossimo giugno diventa prioritario. Pur limitato dall’autorità della massima guida spirituale, negli ultimi 20 anni il presidente eletto ha poi dettato l’agenda politica iraniana per i prossimi otto anni. La leadership oltranzista avrebbe così quel pretesto che giustificherebbe una politica durissima nei confronti del maggior nemico, a cui addossare ogni male. E indirizzare il tangibile scontento della popolazione tra le strade di Teheran e di molte altre città.
Se alcuni oltranzisti in segreto confidano in un’affermazione di Trump, una consistente fetta della popolazione (in particolare i giovani) sperano nell’affermazione di Biden. Al di là delle richieste di maggiori libertà e del diritto di espressione, sono consapevoli che il candidato democratico è aperto a una ripresa dell’accordo sul nucleare, forse rivisto. E comunque punterebbe a una fase negoziale che darebbe respiro all’economia iraniana e potrebbe perfino, una volta ripreso e firmato l’accordo che prevede degli obblighi anche da parte di Teheran, arrivare a rimuovere le sanzioni. Ecco perchè il Paese è diviso. Parte della leadership politica tifa segretamente per il nemico Trump, buona parte della popolazione spera invece in Biden. Sognando quel ritorno alla normalità visto tra il 2016 e il 2018 (dopo la rimozione delle sanzioni) di cui gli iraniani hanno avuto un assaggio troppo breve.