Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2020
La schedatura digitale dei bimbi
La parola è brutta ma rende bene l’idea: datizzati, che sarebbe un tentativo di italianizzazione di datified. Quanto siamo datizzati? Cioè quanto è nitida l’impronta digitale della nostra vita che concediamo più o meno volontariamente a istituzioni, società e aziende private in cambio di servizi più o meno indispensabili? La risposta è soggettiva ma non per le nuove generazioni. Perché con il Covid-19 la raccolta di dati ha subito una accelerazione senza precedenti. E le conseguenze dirette le impareranno a conoscere chi oggi è più giovane, più debole e meno informato.
Per usare le parole delle Autorità Garante per l’Infanzia inglese le nuove generazione sono la prime datizzate dalla nascita. Come spesso accade più di un Grande Fratello che vede, misura e registra tutto siamo di fronte a un gigantesco concorso di colpe che ha per protagonisti le istituzioni, i genitori e una drammatica mancanza di cultura digitale collettiva. La prima raccolta dati – è strano a dirsi – inizia con la prima poppata. Il digitale in questo caso non c’entra. Molto spesso i neogenitori tengono traccia delle prime settimane di vita del neonato su un quaderno di carta segnando giorno per giorno le ore di sonno, stato delle feci, quantitativo di latte, pannolini cambiati, ecc. Chi preferisce il supporto digitale può arricchire queste informazioni applicando dispositivi indossabili e sensori alla culla per rilevare per esempio battito cardiaco, temperatura magari aggiungendo un monitor a infrarossi per controllare quello che succede di notte. Va da sé che tutte queste informazioni – compresi i dati biometrici -possono essere collezionati su smartphone e volendo condivisi con il mondo esterno. Non c’è nulla di illegale. Ci sono pediatri che per risparmiare una telefonata si fanno mandare questa sorta di “diario di bordo” via Whatsapp. Un copia e incolla dei dati e via. In fondo, che c’è di male, è il medico curante?
E gli amici? I parenti? I contatti su Facebook? Il nostro pubblico? Già e a loro, chi ci pensa? La condivisione di immagini e video sui social network ha ormai un nome proprio: sharenting che nasce appunto dall’unione dei termini “sharing” (condivisione) e “parenting” (genitorialità). Per fortuna a differenza del termine “datizzati” non c’è ancora una traduzione italiana. Ma anche da noi non sono pochi i papà e le mamme che hanno cominciato a pubblicare dati dei propri figli prima ancora diciamo del loro debutto ufficiale in società. L’ecografia su Facebook o Instagram in fondo è una trovata simpatica per comunicare a amici o parenti o all’universo mondo l’arrivo del nuovo bambino. La pratica intendiamoci non va giudicata ma solo compresa più fondo e anche misurata. Secondo uno studio del dipartimento per l’educazione britannico, quando un bambino compie il tredicesimo anno, i suoi genitori hanno già pubblicato 1.300 foto e video sui social media. Vuole dire che se il figlio ha preso dai genitori, se cioè ha mutuato da mamma e papà l’urgenza di condivisione via social, raggiungerà entro i 18 anni quota 70mila post.
Ad ogni modo esistono delle regole e delle norme da rispettare. In Europa per fortuna dal 2018 abbiamo la Gdpr che ha introdotto un limite di età di 16 anni alla capacità dei bambini di acconsentire al trattamento dei propri dati. Prima del regolamento europeo i principali social network prevedevano una età minima per iscriversi fissata a 13 anni. Quindi bene così.
Ma se suoi social sappiamo (o dovremmo sapere) di essere noi il prodotto e quindi tracciati c’è poi c’è anche quello che accade a nostra insaputa. Già ci sono i giocattoli. Quelli connessi, che parlano, ascoltano e registrano. Questi giocattoli sono in grado di “trattare” (anche) dati personali interagendo con le persone e con l’ambiente circostante tramite microfoni, fotocamere, sistemi di localizzazione e sensori nonché di connettersi alla rete per navigare online e comunicare con smartphone, tablet, PC e altri smart toys. Qualcuno si ricorderà – anzi non si ricorderà – del caso della bambola interattiva Cayla. Biondina, giacca di jeans e gonna rosa. È oggi considerata in Germania uno strumento di spionaggio. L’Autorità garante delle telecomunicazioni l’ha messa al bando l’estate scorsa. Non solo non è più possibile venderla ma non si può neppure detenerla. Chi l’ha acquistata dovrà distruggerla.
Infine ci siamo noi cittadini e genitori chiamati a tenere traccia di tutte le tracce che siamo chiamati a lasciare. «Le conseguenze sul piano cognitivo, sociale e politico – ha scritto Giovanna Mascheroni, sociologa dei media all’Università Cattolica – sono potenzialmente distruttive e ci invitano a interrogarci sui diritti di cittadinanza che ormai diamo per scontati». «Sappiamo troppo poco sull’uso che verrà fatto di questi dati – spiega al Sole 24 Ore – e sull’impatto che avranno sui nuovi adulti. Chi decide quali dati sarà lecito usare per decidere un posto di lavoro o l’accesso a una borsa di studio? Il rischio è reale – conclude – e come è accaduto per il digital divide applicato all’apprendimento potrebbero nascere nuove e più profonde disuguglianze».