la Repubblica, 22 ottobre 2020
Diario di un giornalista italiano contagiato in Cina
Trac trac. Ogni volta che un’infermiera si chiude la porta alle spalle, dopo avermi portato il pranzo o fatto l’ennesimo tampone, fa subito scattare la serratura. Ecco la differenza: qui la mia stanza è bloccata dall’esterno, un suono che mi sforzo senza successo di ignorare. Nell’albergo dove stavo fino a quattro giorni fa non era così. Certo, nella sostanza non cambiava molto: al rientro dall’Italia avevo comunque firmato un impegno legale a non uscire dalla camera, a rispettare le due settimane di quarantena obbligatoria prevista per chi arriva in Cina dall’estero, straniero o cinese che sia. Là però la porta restava aperta, un’illusione di libero arbitrio, la possibilità di sbirciare in corridoio, il segno che le autorità si fidavano della mia collaborazione.
Ma ora alla Cina la fiducia non basta più. Ora sono positivo al coronavirus, tampone effettuato domenica, e quindi sono stato trasferito in un girone più in profondità nel sistema di contenimento costruito da Pechino attorno al contagio. Dall’hotel per la quarantena dei viaggiatori in arrivo, pur sempre uno Holiday Inn, a questa struttura medica temporanea alla periferia di Nanchino, uno di quegli ospedali di moduli prefabbricati assemblati all’apice dell’epidemia. Sceso dall’ambulanza, l’infermiera mi ha preso i parametri vitali, fatto versare 2000 renminbi come caparra (300 euro, il resto alla fine) e accompagnato nella celletta. Stanza d’ospedale 3 metri per 5, niente luce naturale, solo un neon che appiattisce tempi e spazi, due letti, due comodini, un armadio, una telecamera, il bagno e un grande thermos dell’acqua calda. Il resto, mi ha spiegato l’infermiera, si può ordinare al negozio. Poi si è chiusa la porta alle spalle: queste pareti grigiobianche saranno il mio orizzonte finché non tornerò negativo. Altro che Holiday Inn. Isolare ogni positivo e ogni sospetto in strutture centralizzate è uno dei pilastri della risposta cinese al virus. Fin dai tempi di Wuhan, a costo di trascinare le persone fuori casa con la forza. A maggior ragione Pechino continua a farlo ora che il suo draconiano sistema si è dimostrato un successo. Prima di un piccolo focolaio scoppiato due settimane fa nella città di Qingdao, e subito contenuto con tamponi di massa e tracciamento, il Dragone aveva dichiarato per due mesi trasmissioni zero. Qualche caso potrà pure sfuggire ai radar, ma la sostanza è che il virus non circola. Gli unici positivi sono quelli importati dall’estero: per questo ogni passeggero che sbarca dall’aereo viene inserito in un corridoio “sanitario” che lo conduce dritto all’hotel della quarantena (a sue spese). Solo dopo due settimane e un tampone negativo è libero di uscire. Per dimettere un contagiato come me invece di tamponi negativi ce ne vogliono due, a tre giorni di distanza tra loro.
L’approccio draconiano si vede anche nelle cure. Dopo una tac ai polmoni sono stato classificato come “asintomatico”. Nel resto del mondo lascerebbero il mio sistema immunitario a combattere il virus da solo. Qui, oltre a isolarmi, mi prescrivono una terapia. Me l’ha spiegata una dottoressa che non vedo mai di persona, ma che risponde prontamente a ogni messaggio su We-Chat, sempre in mandarino: l’Arbidol, un antivirale russo la cui efficacia non è dimostrata, e un aerosol di interferone. Eccesso di zelo? Forse, ma i risultati parlano per la Cina. Nei primi tre giorni le infermiere mi hanno fatto tre tamponi, prelevato dieci fialette di sangue, domandato la febbre via chat mattina pomeriggio e sera. Sotto gli scafandri azzurri alcune di loro mi sembrano fredde, altre più amichevoli, una mi aiuta ad accendere il riscaldamento della stanzetta, un’altra tenta addirittura un po’ di inglese. Tutte, quando escono, chiudono subito la porta a chiave.