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 2020  ottobre 17 Sabato calendario

1QQAFM11 Intervista ad Antonio Manzini su "Gli ultimi giorni di quiete" (Sellerio)

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«La prima notte di quiete è la morte, perché si dorme senza sogni». Secondo Valerio Zurlini, che aveva intitolato così un suo notissimo film, la citazione è di Goethe, anche se Goethe il verso esatto non l’ha mai scritto. Ma il misterioso legame tra morte e sonno riecheggia prepotente ne Gli ultimi giorni di quiete di Antonio Manzini, proprio come il titolo riecheggia quel verso elusivo. Il sonno è l’unica via di fuga che ha Nora per dimenticare, almeno qualche ora, la tragedia che ha sconvolto la vita sua e del marito Pasquale: l’omicidio del figlio Corrado a 23 anni durante una rapina nella loro tabaccheria finita nel sangue. La vita di Nora e Pasquale è inchiodata a quel giorno di marzo a Pescara, cristallizzata nel tempo come la stanza del figlio dove Nora cerca un impossibile conforto nell’oblio del sonno. «Sei anni prima aveva dormito per un mese intero in quella stanza, sotto quelle coperte che non aveva mai lavato. Pasquale non glielo aveva mai chiesto, non ce n’era bisogno, sapeva il perché. Odoravano di Corrado... Corrado era fuggito all’improvviso e aveva lasciato solo un po’ di odore nel piumone, non s’era portato via i vestiti ancora chiusi nell’armadio, neanche i libri dell’università allineati sugli scaffali insieme ai classici della letteratura illustrata per ragazzi».

A interrompere il limbo, la strana quiete in cui sopravvivono Nora e Pasquale arriva l’imprevisto. Un giorno in treno Nora vede l’assassino del figlio, Paolo Dainese: è uscito di prigione, l’omicidio era preterintenzionale, lui era incensurato, per la legge è tutto regolare. Ma per Nora e Pasquale è la fine del mondo, una ferita mai guarita che torna a sanguinare. Non c’è giustizia possibile per chi ha perduto un figlio, e loro decidono di farsi giustizia da sé. Ognuno a suo modo: Pasquale, tranquillo, metodico, ordinato, scopre in se stesso una vena violenta e vendicatrice, «quel piccolo nucleo esplosivo che molti esseri umani hanno, che se eccitato e innescato si spacca, deflagra e ci fa dare il peggio di noi» e si esercita con una vecchia pistola. Nora, più raffinata nella sua disperazione, ingaggia la sua guerra privata contro il Male, cercando di dare un significato alla spietata casualità del delitto, per refrain il ricordo scolastico di un frammento di Alceo: «è bello infatti morire per Ares» .

È davvero una quiete profondissima e terribile, quella che dipinge Manzini: la discesa agli inferi dei personaggi, imprigionati in un’alternativa diabolica tra amore e morte, tra legami di sangue e dubbi etici, è documentata da un linguaggio esatto, quasi asettico, un’osservazione implacabile della provincia italiana: Settimane enigmistiche e treni interregionali, tinture per capelli e odore di olio di carrozzeria. Per poco, il cor non si spaura.

Antonio Manzini senza Rocco Schiavone. È una sensazione strana, all’inizio. Come dire Simenon senza Maigret, Agatha Christie senza Poirot, Camilleri senza Montalbano. «È proprio Andrea Camilleri che mi ha messo sull’avviso la prima volta» sorride lui, al telefono dal suo buen retiro nella campagna laziale, dove vive da qualche anno con la moglie Toni e i suoi cani. «Io allora ancora non avevo inventato Schiavone, facevo l’attore e lui era stato mio maestro all’Accademia. Aveva scritto cose bellissime senza Montalbano, ma, diceva, “questo qui ogni volta rispunta fuori. Non riesco a togliermelo di torno”. A volte i personaggi hanno vita propria, diventano ingombranti e prendono il sopravvento ».

Lei aveva paura di essere sopraffatto da Schiavone?
«Non sopraffatto, ma un po’ annoiato sì. Sentivo il bisogno di un periodo lontano da questo unico lunghissimo libro su Schiavone che sto scrivendo. Un po’ come nei matrimoni, anche i più felici, quando arriva la sera che vuoi uscire con gli amici. In fondo con Schiavone siamo alla crisi del settimo anno. Certo, lo vivo proprio come un tradimento».

Sente di aver tradito Schiavone con questo libro?
«Un po’ sì. Il fatto è che non si scrive mai un libro alla leggera, questo in particolare. Sentivo l’esigenza di rispondere a una domanda che continuava a risuonarmi dentro da quando 15 anni fa ho incontrato un padre disperato».

Quindi «Gli ultimi giorni di quiete» è una storia vera?

«Prende spunto da una storia vera. Quest’uomo mi raccontò il dolore e lo choc quando per caso aveva rivisto sul treno l’assassino della figlia uscito dopo pochi anni di prigione e mi sono chiesto: io come reagirei?».

Si è dato una risposta?
«No, io sono uno più da domande che da risposte. E credo che nessuno sappia davvero come si comporterebbe in una situazione così estrema prima di trovarcisi dentro. Ogni risposta in un caso così è personale. Per me l’atteggiamento giusto non è trovare la risposta ma capirne il perché, così ho provato a immaginare due tipi di risposta, quella del padre e quella della madre, ed è nato il libro».

Sono due modi quasi opposti, uno di aggressività, l’altro di autodistruzione. Uomini e donne sono così diversi?
«Credo che a essere diversi siano l’amore paterno e materno. Quello materno è viscerale, è la forza più potente che esista in natura, la morte di un figlio annulla la volontà di vivere. Quello paterno è più mediato, quindi può scattare il desiderio di vendetta, una vera ossessione a farsi giustizia da sé. Ovviamente sto generalizzando».

Lei è un padre “acquisito” di due ragazzi figli del primo matrimonio di sua moglie, vero?
«Si, sono il padre “di riserva”, come il portiere, entro in campo quando il titolare ha un problema. Mi sento di dire che li amo come fossero miei, quando sono entrati nella mia vita erano degli gnomi e ora sono adulti. Ma non è che si smette mai di preoccuparsi per loro».

Per questo non è riuscito a inserire nel libro l’ironia nera cui ci ha abituato Schiavone?
«Non ho voluto inserirla per rispetto ai personaggi e alla loro tragedia, il loro è un frontale con un treno da cui non si torna indietro, quel momento nella vita in cui ci si ritrova soli e non si è più in grado di recuperare terreno. Non si sentono più tutelati dalla giustizia, dallo Stato, perdono i codici per decifrare la società: entrano in una terra di nessuno dove tutto diventa possibile».

La giustizia umana sembra terribilmente insufficiente in questi casi, non come nei gialli dove si sospira di sollievo quando si trova il colpevole.
«Il problema della legge è che è astratta, sono regole da applicare caso per caso. E ogni caso contiene un mondo. Poi c’è anche da dire che nel nostro Paese c’è una diffidenza profonda verso lo Stato, per motivi storici: lo Stato non sei tu ma qualcuno che ti occupa. Quindi non ti fidi delle sue decisioni. E poi, guardiamoci intorno, i casi risolti in Italia sono pochissimi, tutto questo non ispira troppa fiducia. Non ci resta che dire “Speriamo non capiti a me”».

È quello che si ripeteranno molti lettori con figli grandi..
«Possibile, ma raccontare e ascoltare le storie, anche quelle senza lieto fine, è una sorta di catarsi, un modo per elaborare persino i dolori più terribili. Forse l’unico » .

Di fronte al dolore ci si trova da soli, sembra dire il libro: è inevitabile?
«Ci sono due tipi di solitudini, una è quella, terribile, imposta da un fatto tragico. Ma c’è anche quella voluta, e questo è un gesto vitale. Come quando esci con gli amici e capisci che non te ne frega nulla di parlare con loro. É a quel punto che diventi un osservatore della vita e non un giocatore».

Lei si sente un osservatore?
«Osservo un sacco, da sempre. A 20 anni lo facevo per giudicare, con la spietatezza dei giovani. Ora lo faccio per capire».

Proprio come un detective. Per questo scrive libri gialli?
«Beh, la letteratura è sostanzialmente un’indagine, sui sentimenti, sul passato. Le storie in fondo sono sempre quelle, e allora dopo Madame Bovary che senso avrebbe scrivere ancora? Ogni libro è una scusa per indagare sulla vita, è sempre la ricerca di un assassino».

A volte si scrive per raccontare se stessi. Che ne pensa?
«Non è il mio caso. Né da lettore né da scrittore. A meno che tu non sia Proust, ma io di Proust in giro non ne vedo... Io scrivo per capire. E leggo per viaggiare in terre inesplorate».

C’è anche chi scrive per riaggiustare la realtà, un po’ come Tarantino con i suoi film.
«Un approccio che adoro: è la libertà assoluta e meravigliosa di un narratore di modificare la storia a suo piacere e darle un altro finale. Pensi ai Tre moschettieri di Dumas: a leggerli con il peso della Storia sono tutti sbagliati, Luigi XIV, la fronda, Richelieu, sono un’altra cosa. Ma che meraviglia».

Ascoltare una storia è come tornare bambini?
«È un po’ come quando da piccoli si giocava a “facciamo finta che” e si inventavano situazioni irreali in cui credevamo con tutti noi stessi. Abbiamo il diritto di raccontare bugie. Come mi diceva mia nonna “Almeno nella fantasia non ti far rompere i coglioni”. È un patto scritto tra chi racconta e chi ascolta: l’importante è credere nelle proprie invenzioni».

Realtà e finzione, un gioco da attori. D’altronde lei ha iniziato recitando, giusto?
«Sì e non dimenticherò mai la lezione di Luca Ronconi - Ronconi eh, mica pizza e fichi - che diceva: “Non dovete giudicare il personaggio, dovete esserlo”. Chi giudica il personaggio è un attore di cervello, chi diventa il personaggio è un grande attore. Lo stesso con la scrittura, devi crederci. So benissimo di non essere Maupassant e che Bel Ami è meglio di Rocco Schiavone, ma credo che ci sia bisogno anche delle mie storie, se scrivo in modo autentico».

E chi scrive in modo critico rispetto alla storia? Chi privilegia lo stile al contenuto?
«Non mi convince. Lo stile a volte è sopravvalutato. Io credo che lo stile si debba piegare alla storia, altrimenti diventa un esercizio sterile, una masturbazione. Per non parlare di chi scrive storie senza amarle abbastanza e il risultato è che non si capisce niente».

Non credo mi farà dei nomi...
«Neanche sotto tortura»

Come convive con il successo Schiavone, pardon, Manzini?
«È tutto molto relativo. Ho conosciuto attori famosissimi che non potevano uscire di casa se prima non si camuffavano. Me, non mi riconosce nessuno. Detto ciò, chi dice che il successo non conta è un bugiardo. Mi è stato fatto un enorme regalo: adesso le persone mi ascoltano. Ma è anche una grande responsabilità: proprio per quel patto che si diceva prima tra narratore e lettore, le aspettative sono cresciute e le ansie pure. Ho ancora più paura di far uscire i libri».