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 2020  ottobre 21 Mercoledì calendario

Negli Usa parte il processo a Google

È un monopolio illegale, soffoca la concorrenza, ha “blindato” le nostre ricerche su Internet, ci toglie libertà di scelta, impedisce l’innovazione: questi sono i capi d’accusa che l’antitrust degli Stati Uniti ieri ha lanciato contro Google. Il procedimento legale prende di mira uno dei giganti di Big Tech, nato 22 anni fa in un garage di San Francisco e cresciuto fino a diventare una presenza ubiqua nelle nostre attività quotidiane: dal motore di ricerca a GoogleMap a YouTube. Il Dipartimento di Giustizia – che ha funzioni di autorità antitrust negli Stati Uniti – non contesta la bravura di chi ha costruito un’azienda così innovativa, ma sostiene che una parte del gigantesco fatturato pubblicitario viene spesa da Google per erigere robuste barriere contro chiunque si azzardi a farle concorrenza. L’annuncio del ministero, che equivale all’incriminazione dopo un’istruttoria e apre un procedimento giudiziario, segna la più formidabile offensiva dell’antitrust Usa nel terzo millennio: l’ultimo precedente di queste dimensioni colpì Microsoft nel 1998, lo stesso anno in cui Google muoveva i suoi primi passi come una start-up. L’attacco sferrato da Washington è potenzialmente molto più grave rispetto ai contenziosi che Google ha avuto con la Commissione europea di Bruxelles, per lo più risolti a colpi di multe che non hanno mai intaccato un’azienda la cui liquidità immediata vale 120 miliardi di dollari. Se vittoriosa, l’offensiva antimonopolistica costringerebbe Google a cambiamenti strutturali, nei suoi comportamenti.
Al centro delle accuse ci sono i metodi usati da Google per rimanere il “gatekeeper” o “guardiano d’ingresso” delle nostre attività in Rete. In particolare, gli accordi miliardari con i produttori di smartphone, grazie ai quali Google viene installato come il motore di ricerca “per default”, in automatico. Con Apple per esempio questo accordo prevede il pagamento di 10 miliardi di dollari all’anno. «Praticamente lavoriamo come se fossimo un’azienda sola», ha detto un dirigente di Apple in un documento agli atti dell’istruttoria. Lo stesso vale per il software Android installato su molte altre marche di telefonini, anche lì solitamente il motore di ricerca Google è in dotazione fin dalla produzione e l’utente automaticamente tende ad affidarsi a quello. Altre pratiche anti-concorrenziali riguardano la raccolta della pubblicità digitale, pure quello un mercato dominato da Google. Nelle ricerche online compiute dagli utenti americani, l’80% transita sul motore Google. Nella pubblicità, Google e Facebook catturano il 59%, con una netta prevalenza della prima. Perfino come browser per navigare su Internet da computer e tablet, il Chrome di Google è dominante con il 65% degli utilizzi.
La prima risposta dell’azienda californiana è stata affidata al capo del suo ufficio legale, Kent Walker, che ha dichiarato: «La gente usa Google perché sceglie di farlo, non perché sia obbligata o non abbia alternative. Paghiamo per promuovere i nostri servizi, così come una marca di cereali paga il supermercato perché il suo pr odotto sia piazzato in uno scaffale ben visibile». Inoltre Google contesta le percentuali sul suo dominio delle ricerche online; fa notare che l’80% si riferisce alle ricerche che usano un motore generico, ma che molti consumatori in realtà vanno direttamente su Amazon quando cercano qualcosa da comprare. Per il Dipartimento di Giustizia, al contrario, il comportamento monopolistico di Google non danneggia solo i consumatori bensì l’economia americana tutta intera: «Se non tuteliamo la concorrenza – ha detto uno dei magistrati incaricati del procedimento – il rischio è che perderemo la prossima ondata di innovazioni. Se questo succede, gli americani non vedranno mai nascere il prossimo Google». L’argomento è dibattuto da ben più di vent’anni. Fin dagli albori dell’economia digitale – quando la presenza dominante fu Microsoft – molti esperti hanno denunciato lo stesso trend: coloro che esordirono come dei giovani idealisti e innovatori, animati dalla passione di creare, una volta edificati dei giganti hanno cercato di circondarli da robuste barriere, grandi muraglie contro i futuri sfidanti. Vale per Larry Page e Sergey Brin, anche se i due fondatori di Google hanno lasciato il comando a un manager di origine indiana, Sundar Pichai.
L’annuncio dell’offensiva antitrust è arrivato a due settimane dall’elezione presidenziale. Donald Trump aveva promesso di fare qualcosa contro lo strapotere di Big Tech, un mondo di iper-capitalisti molto più grossi di lui e prevalentemente progressisti (come si vede nelle recenti iniziative di vigilanza o censura contro le fake- news). Però l’insofferenza verso i nuovi monopolisti cresce da tempo anche a sinistra. Joe Biden ha considerato «con attenzione» una proposta radicale della senatrice democratica Elizabeth Warren: lo smembramento dei colossi Big Tech. Inoltre l’azione del Dipartimento di Giustizia non è isolata, molti Stati Usa (anche governati dai democratici) avevano aperto delle indagini preliminari nella stessa direzione ed ora si accoderanno all’iniziativa federale. I mercati sembrano minimizzare i rischi nel breve termine: Google, una delle regine della Borsa con una capitalizzazione superiore ai mille miliardi di dollari, ha incassato un ulteriore rialzo. La scommessa è che la battaglia giudiziaria avrà tempi lunghi. Però l’apertura di questo fronte può indicare un cambio di clima politico, la fine degli anni in cui Big Tech le vinceva tutte, e un nuovo Congresso potrebbe intervenire sul fronte legislativo.