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 2020  ottobre 21 Mercoledì calendario

Intervista a Mattea Troncatti, l’assistente sanitario che ricostruisce la ragnatela dei contatti

Pochi, introvabili, indispensabili. Mattea Troncatti, 45 anni, professione tracer, è una dei novemila assistenti sanitari che ogni giorno si alzano al mattino e, come detective, partono da pochi indizi per ricostruire la ragnatela dei contatti. E decidere quante persone mettere in isolamento. L’equazione è semplice: più i positivi aumentano, più fare queste inchieste è difficile, più il virus è fuori controllo. «Riesco a fare due o tre indagini epidemiologiche al giorno, dovrebbero essere 15», racconta Troncatti, bresciana trapiantata a Bologna, che lavora per il dipartimento di Sanità pubblica dell’Ausl diretto da Paolo Pandolfi. Da mesi si corre senza sosta per inseguire e spegnere i focolai.
Com’è la giornata di una tracer?
«Arrivo la mattina e ho dei casi da gestire in base alle priorità. Comincio dai pochi indizi di una persona che ha avuto un tampone positivo: nome, data di nascita, numero di telefono. E poi partono le telefonate».
Cosa chiede ai positivi?
«Perché hanno fatto il tampone, se hanno avuto sintomi, dove possono aver preso il virus, chi hanno visto nelle 48 ore precedenti al test».
È l’indagine epidemiologica.
Quante inchieste fa al giorno?
«Oggi due o tre. Ma con il numero di contagi di oggi, dovremmo farne almeno 15 a testa. Solo che a pieno regime siamo una ventina di persone e i ritmi sono duri da sostenere.
Questo è il periodo più nero, si accumulano molti casi. Pensi a un quarantenne positivo: lavora, fa sport, ha figli, una vita sociale. Rischi di mettere in sorveglianza dieci o dodici persone. Devi chiamarle, mandare loro una lettera ufficiale. Se poi il caso è di un minore, bisogna allertare le scuole e organizzare i tamponi in tempi rapidissimi».
Le persone collaborano?
«All’inizio, quando stavano male, erano più sensibili a diffondere i nomi di tutti i contatti. In estate, quando l’età media si è abbassata e intervistavamo tanti ragazzi, le nostre domande venivano viste come un’inquisizione».
C’è qualche caso che ricorda?
«Un giovane tornato dalla Sardegna che ha fatto il tampone. Alla seconda parola ho capito che voleva raccontarmi la storiella: “Sono andato in vacanza da solo, vivo da solo”. “Sei molto solo”, ho scherzato.
Allora si è sciolto. In realtà aveva avuto molti contatti. Era titubante perché i suoi amici erano già ripartiti e non voleva rovinare le loro vacanze».
Senza il vostro lavoro il virus sarebbe difficile da fermare. Ma siete in pochi. Secondo lei è percepito questo impegno?
«A me alcune cose fanno molta rabbia. Domenica ho finito alle 18, poi vedi gli assembramenti, i negazionisti. Noi operatori sanitari siamo passati da eroi a persone che rovinano le vacanze, questa cosa l’ho percepita. Non siamo eroi, facciamo questo lavoro per scelta e per passione. Ma ti additano per tutto: dai ritardi alle code per i tamponi.
Fare più di così è impensabile. Diamo tanto, tutto. Se la gente non capisce che mascherine e distanziamento fanno la differenza andiamo in affanno. Rischiamo di non riuscire a tracciare più e ci esponiamo a un rischio altissimo che complica il nostro lavoro».