Corriere della Sera, 21 ottobre 2020
Navigammo gli stessi Mari
Quando le due parti di una coppia che è stata insieme per tutta la vita vanno incontro alla morte l’una dopo l’altra, come se non volessero riposarsi in solitudine neanche un po’, si entra nel territorio dell’insondabile, che è quello di competenza dell’amore. Nel caso di Lea Vergine e di suo marito Enzo Mari, siamo oltretutto lontanissimi da ogni modello tradizionale. Si conobbero a Milano già diversamente sposati, andarono subito a convivere e furono denunciati per concubinaggio e per ripicca dai portinai, a cui Mari contestava di ammorbare il condominio con le fritture di salsicce. Da allora Enzo e Lea sono rimasti liberamente incollati per 54 anni, gestendo due ego zuppi di talento e dunque non facili: critica d’arte e anticonformista lei, designer immenso e spigoloso lui. Si sono amati litigando fino alla fine, e hanno condiviso i successi e le malattie, compreso il Covid che ha dato loro l’ultima spinta, portandoli via a ventiquattr’ore di distanza l’uno dall’altra.
In un’intervista di alcuni anni fa, Lea Vergine definì il loro rapporto un’ossessione «al di là di ogni logica e di ogni ragionevolezza», come ogni amore che si rispetti. Entrambi parlavano dell’altra metà come di un coniuge, di un amico e di un compagno di vita. L’incastro perfetto, proprio perché imperfetto, dal momento che quel tipo di amore lì, per il quale ogni aggettivo sarebbe un limite, non ha alcuna intenzione di renderci perfetti. Si accontenta di farci diventare completi.