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 2020  ottobre 21 Mercoledì calendario

Il dollaro torna re del mercato

Il debito pubblico degli Stati Uniti è balzato al 140% del Pil, superando i 120 punti che risalgono alla seconda guerra mondiale. Il 2020 dovrebbe chiudersi con un deficit/Pil al 20%. Il tutto mentre gli investitori attendono – tra i market mover del momento – che democratici e repubblicani raggiungano un’intesa per un nuovo piano di aiuti da 2.000 miliardi di dollari, senza il quale il tasso di disoccupazione potrebbe raddoppiare prima di Natale.
Eppure, nonostante tutto il dollaro è ancora il re del mercato. Lo si è visto chiaramente durante il momento più duro della crisi pandemica – tra febbraio e marzo – quando gli investitori cercavano di accaparrare dollari più in fretta possibile, vendendo azioni, obbligazioni e a un certo punto perfino l’oro. Pur di avere in mano quello che resta difatti il bene rifugio di ultima istanza. L’andamento del dollar index – un indice che pondera l’andamento del biglietto con le principali valute globali e che per oltre il 50% del valore è influenzato dal solo cambio con l’euro – parla da solo. Il 18 marzo mentre le Borse toccavano nuovi minimi di periodo e l’indice della paura Vix superava per la prima volta nella storia gli 80 punti il dollar index è balzato a 102 punti.
Nei mesi successivi l’umore dei mercati è migliorato. Il passaggio dalla “Fase 1” alla “Fase 2” nella gestione della crisi pandemica in molte parti dal mondo ha favorito il ritorno agli acquisti sulle classi di investimento più rischiose e allora il dollaro si è sgonfiato mediamente del 10%. Ad ottobre però il dollaro sta ritrovando slancio. E non è un caso che questo coincida con la rinnovata incertezza degli investitori sugli effetti che potrà avere sull’economia la seconda ondata del Covid che, come previsto, si sta puntualmente verificando con l’arrivo dell’autunno. A conti fatti il Covid ha stabilito la gerarchia tra le classi di investimento: in questo momento il dollaro mantiene lo status quo di re del mercato
Il fattore Covid
Un’eventuale inversione, da “Fase 2” a “Fase 1”, andrebbe con ogni probabilità a rafforzare nuovamente il dollaro, a indebolire i mercati azionari. Uno scenario che non gioverebbe al settore delle materie prime. Per due motivi: 1) essendo quotate in dollari tendono a soffrire le fasi di rivalutazione della divisa; 2) un rafforzamento del dollaro indebolisce i Paesi emergenti (perché hanno un forte debito in dollari e perché sono costretti ad alzare i tassi per attirare nuovi capitali) che sono forti consumatori di commodities. Quindi il Covid potrebbe nei prossimi mesi spingere ancora in alto il dollaro.
Le elezioni presidenziali

E poi c’è il 3 novembre. Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. I sondaggi danno il candidato democratico Joe Biden in netto vantaggio su Donald Trump. Tuttavia non si può dare certo l’esito per scontato, considerato che anche quattro anni fa il candidato repubblicano era dato come sfavorito rispetto a Hillary Clinton, salvo poi ribaltare il pronostico alle urne. La vittoria di uno piuttosto che l’altro potrebbe non essere indifferente al dollaro. «Quello che ci suggeriscono al momento i sondaggi è un doppio scenario che potrebbe prevedere o una vittoria totale dei democratici o una vittoria di Biden che però porterebbe ad un “governo diviso” con il Congresso – spiega Francis Scotland, director macro research di Brandywine global -. Una doppia vittoria dei democratici potrebbe rivelarsi particolarmente negativa per il dollaro in base a come l’amministrazione gestirà la politica fiscale per contrastare le disuguaglianze. Invece un governo diviso a presidenza Biden rappresenterebbe il mantenimento dello status quo almeno per un po’ e ciò, a parità di condizioni, comporterebbe una situazione più favorevole per il dollaro. Il dollaro rimane, per il prossimo futuro, il primo della classe in termini di status e sicurezza».
A parer di Jean-Marie Mercadal, Cio di Ofi asset management, «gli studi in termini di parità di potere d’acquisto considerano una sopravvalutazione del dollaro tra il 10% al 15% e, soprattutto, l’entità del bilancio Usa e del deficit commerciali richiederanno di finanziarsi nei mercati internazionali e puntano a un adeguamento al ribasso. Una vittoria di Biden aumenterebbe questo scenario di svalutazione perché il programma dell’ex vicepresidente prevede un pacchetto di stimoli più corposo di quello di proposto da Trump, e farebbe dunque aumentare il debito del Paese. Inoltre, il suo piano di innalzamento del livello delle tasse potrebbe ridurre il flusso di capitali internazionali negli Usa».
La visione di medio-lungo
«Il dollaro potrebbe rafforzarsi se ci sarà un ritorno del Covid-19 nei mesi invernali. Tuttavia, la nostra opinione è che il calo che abbiamo visto da marzo in poi rappresenti solo l’inizio di un trend discendente nel medio/lungo termine» spiega Robbie Boukhoufane, fixed income portfolio manager di Schroders. «Il principale fattore determinante è l’emergere di una o più valide alternative che fungano da moneta di riserva a livello mondiale. In questo senso vedremo probabilmente una minore dipendenza dal dollaro come valuta prediletta per transazioni internazionali e commodity. Sebbene con tempistiche incerte, sembra sempre più probabile che mercati e governi cercheranno di diversificare rispetto al dollaro. Questo potrebbe accelerare se l’Europa spingesse in modo significativo l’integrazione dei 19 membri dell’euro: il Recovery Fund in questo senso è rilevante così come lo sarebbero gli sforzi per rafforzare il settore bancario. Se ciò dovesse accadere, l’euro potrebbe sottrarre al dollaro parte del suo ruolo di valuta di riserva. Ci sono segnali che mostrano che il processo di de-dollarizzazione, che richiederà 5-10 anni, è già iniziato».