il Giornale, 21 ottobre 2020
Biografia di Gavino Ledda
Chiamai a casa Gavino Ledda. Rispose dopo pochi squilli e iniziammo a parlare. Avevo avuto una strana idea: siccome negli anni ’80 e ’90 ci furono diversi autori che pubblicarono libri da milioni di copie e poi sparirono, perché non andarli a scovare di nuovo e chiedere loro un dattiloscritto inedito? Gavino Ledda era uno di questi. Aveva pubblicato Padre padrone per Feltrinelli e fu tradotto in tutto il mondo. Nel 1977 i fratelli Taviani si aggiudicarono a Cannes la Palma d’oro col film tratto dal libro. Insomma un successo pazzesco. Eppure Gavino Ledda dopo quel libro pubblicò pochissimo altro. Perché? Ledda racconta situazioni che paiono riti d’iniziazione nei quali i personaggi e i fatti sono sempre molto ben definiti: il cattivo, il buono, la vittima, il sacrificio, le prove continue, la morte rituale, la rinascita. D’accordo, dopo aver fatto il pastore si è affrancato da quella vita, si è diplomato e successivamente laureato a Roma in Glottologia, ma per me rimane uno nato imparato grazie a talenti inspiegabili.
Poi questa storia degli autori di bestseller spariti nel nulla la dissi a Gianluca Barbera che, prima di affermarsi come narratore di romanzi d’Avventura, gestiva diversi marchi editoriali in società con Rusconi Libri. Nel sentire l’idea saltò sulla sedia perché ci vide una grande possibilità e mi diede carta bianca. «Avanti con Ledda!». A pensarci c’era da fare il colpaccio.
Un giorno a Gavino feci la fatidica domanda: «Hai un libro inedito da darmi?» Silenzio. Mi disse di andarlo a trovare a Siligo, dove abita, per conoscerci dal vivo. Come no! Da Mantova a Siligo, provincia di Sassari, era un attimo. Così Barbera disse che dovevamo andarci assieme, bastava fossi arrivato a Siena, dove abita, e avremmo preso l’aereo. Chiamai Gavino: «Guarda che arriviamo io e un mio amico editore eh. Arriviamo lì a Siligo eh. Solo una cosa: come facciamo a trovarti?» Appena varcato il paese, su uno stradone diritto, avremmo visto un muflone e non ci saremmo potuti sbagliare. Lì abitava lui. Un muflone. Disse proprio così. Arrivammo sani e salvi all’Aeroporto Alghero. Faceva giorno, e da lì prendemmo un Pandino grigio a noleggio, scassato, e ci facemmo tutta la strada per arrivare a Siligo. Che storia. Barbera rallentò a ridosso del cartello che riportava il nome del paese: S-I-L-I-G-O, scandii a voce. Avanti duecento metri circa, dal muro di una casa fuoriusciva un’enorme testa bianca, in pietra, dalla forma taurina. «Ecco lì il muflone!» Inchiodammo. Uscii svelto a guardare il campanello. In effetti c’era scritto Gavino Ledda. Era tutto veloce, in flashforward. Uscì Gavino. Ci stringemmo la mano. Aveva una vestaglia amaranto col foularino attorno al collo. Non si addiceva a lui. Ci fece entrare. Ci fece sedere in anticucina. Taceva. Io e Barbera ci guardavamo attorno. Casa spartana, con pochi mobili e pochi oggetti, tre sedie. Intravedevo il caminetto acceso in cucina. Gavino sfilò il foulard, si tolse la vestaglia e rimase in canottiera e pantaloni maròn. Ecco sì, ora lo riconoscevo! Ci sedemmo. Lo scorrere del tempo tornò normale e iniziammo a parlare. Gavino partì in quarta con elucubrazioni sul cielo, sugli astri, sulla composizione delle costellazioni, sulle galassie. Concentrò tutto il discorso su scienza e filosofia, soprattutto Keplero e Copernico e Barbera gli andò dietro. Gavino diceva che il linguaggio degli umani è limitato. Lessico e sintassi sono un limite per l’uomo e ora si rendeva necessario qualcosa di nuovo, qualcosa che comprendesse spazio e tempo. Non capivo, ma citava Einstein e la Relatività inserendola in un contesto linguistico. Boh. Ci spostammo verso il caminetto. Ci sedemmo in terra su tappeti e cuscini. Su un tavolo massiccio c’erano alcuni libri su Leonardo Da Vinci. Lo considerava un suo maestro. Forse l’unico. A un certo punto ebbi l’impressione di essere dentro a una grotta. Gli elementi c’erano tutti: il fuoco, la pietra, la penombra con quest’uomo esile, tutto nervo, che andò un attimo da un’altra parte. Barbera mi disse: «Che occasione incontrare uno come lui!» Ci portò del latte da scaldare. Successivamente portò pezzi di carne cruda e la mise sopra al fuoco. Disse che era capretto. In effetti c’era anche la testa allungata dell’animale. La mise in mezzo alla cenere. Veniamo a noi: «Gavino stai scrivendo qualcosa?» dissi io. Fece uno strano giro di parole, ma alla fine disse che dovevamo vedere quello che stava facendo. Adesso però era il momento di mangiare. Come antichi pastori ci mettemmo a triangolo e Ledda ci diede un pezzo ciascuno di capretto. Tirò fuori dalle braci la testa di capretto e la offrì a Barbera che la rifiutò cordialmente con una finta risata: «No, la testa no!» esclamò. Essere lì, in quella specie di grotta, con lui che parlava di Lucrezio, di leggi fisiche, di glottologia, ma alla sua maniera, mi rendeva garrulo. Era solo questione di ore e ci avrebbe dato il romanzo! Mangiammo e bevemmo. Poi ci portò sul retro della casa e ci fece vedere una specie di arena in pietra. Voleva farla diventare un luogo in cui mettere in scena musica, teatro, poesia della civiltà nuragica. Il primo giorno era andata così. Ci eravamo annusati il culo come cani e questa cosa mi piaceva da matti. Gianluca Barbera fuori di sé dalla felicità. Un autore da quattro milioni di copie. Da perderci la testa. Già immaginavo premi all’autore, prestigio per la casa editrice, riconoscimenti. Da non crederci. Ma perché non ci avevano pensato gli altri editori? Che impiastri! «Ti immagini se dopo i fratelli Taviani ci fanno un film sul libro nuovo i fratelli D’innocenzo?». C’era la possibilità di far tornare i conti e fare diventare la casa editrice un vero e proprio culto. Un’operazione culturale di tutto rispetto. Gavino benedetto dal cielo. Ci avrebbe atteso a casa sua la mattina seguente. Ci fece salire le scale. Al primo piano c’era la zona notte. Al secondo piano aveva una specie di ufficio. Anche lì plichi di libri su da Vinci, cataloghi d’arte. Aveva due computer con un’enorme lente d’ingrandimento sui monitor. Gavino scriveva lì. Ci fece vedere che stava lavorando su qualcosa. Solo che, sorpresa, aveva inventato un linguaggio tutto suo, con lessico greco, latino e sardo. Questa nuova lingua, diceva, univa spazio e tempo attraverso la parola. Coniugava Relatività e grammatica.. Ledda diceva di essere riuscito a superare il limite. Ci lesse qualcosa ma non si capiva nulla. Tempo qualche anno, avrebbe scritto la grammatica di quella lingua e l’umanità l’avrebbe adottata per evolversi. Come? Sentii nella testa vuota un’eco di parole incomprensibili. Gavino ci guardava con i suoi occhi acuminati e in quel momento io e Barbera sembravamo diventati due capretti pronti per il rituale del capro espiatorio. Tremavamo. Un romanzo con quella specie di alfabeto segreto sarebbe stato un flop. Ledda ci disse che amava Siena perché alla caserma Bandini, Folgore, ci fece il militare negli anni ’50. Voleva tornare per rivedere i luoghi della giovinezza. Si autoinvitò e in giugno, vitto e alloggio a spese dell’editore, passò una settimana a raccontarci di quella strana lingua inventata da lui. Speravamo rinsavisse. Un giorno eravamo tutti e tre a San Sano, alla trattoria Grotta della Rana. Gavino si sbafò una fiorentina da un chilo e mezzo. «Alla salute!» disse alzando il bicchiere al cielo. Fece cenno a un romanzo nuovo, quasi pronto, ma bluffava. Un grande!