la Repubblica, 21 ottobre 2020
Contro gli anglismi
di Corrado Augias Caro Augias, contrariamente a quanto da lei scritto nel puntuale articolo sulla passione degli italiani per gli anglicismi, il suo “esercizio” è di grande utilità e buon senso. Partendo dal presupposto che la lingua inglese è sintetica, quindi utile nelle pubblicazioni scientifiche quando si deve riassumere un concetto, nelle normali conversazioni e nelle descrizioni della stampa è bene usare il termine italiano. Questo abnorme uso dei vocaboli stranieri in un Paese come il nostro dove peraltro l’inglese vero e corretto lo parlano in pochi, mi pare sia iniziata negli anni ’80 quando, soprattutto ai congressi, faceva “colto” e “evoluto” inserire qua e là termini inglesi. Ricordo ancora, in diversi convegni, esprimere i numeri di tabelle o grafici con 3 punto 4, invece di 3 virgola 4 e via di questo passo. Senza volere imitare la “grandeur” dei francesi che traducono tutto, potremmo almeno metterci d’impegno nell’essere meno provinciali. Serena Stampi, Bologna serena.stampi@gmail.com L a mia nota di domenica scorsa sull’auspicabile uso di parole italiane, quando ne esistano di appropriate, invece di quelle d’importazione, ha raccolto un alto e inaspettato numero di commenti positivi. Ringrazio tutti, ma resto convinto, come ho scritto nel finale dell’intervento, dell’assoluta inutilità della rivendicazione. Io stesso del resto – che ho agitato più volte il tema in questa rubrica – avevo giurato di mai più riprenderlo. Ho violato la promessa in un moto di fastidio verso il ripetuto, sgradevole suono di lockdown che riempie la bocca di ogni commentatore televisivo. A me la nostra lingua pare bellissima, cerco di usarla al meglio, ne conosco i limiti, a cominciare dall’abbondanza di vocali che la rendono facile da cantare (chi ama Wagner sa cosa intendo) ma non certo sintetica, imparagonabile alla snellezza, all’agilità dell’inglese dove la grande maggioranza degli aggettivi contano al massimo due sillabe, spesso solo una. Confinamento ha dodici lettere tra cui ben cinque vocali, si suddivide in cinque sillabe. Nelle otto lettere di lockdown ci sono solo due vocali (anche se pronunciandola diventano tre: o, a, u), si suddivide in sole due sillabe. Come si usa dire: non c’è partita. Continuerò a dire clausura o confinamento consapevole di cedere anche (ma non solo) ad un’impuntatura senile. La verità è che quando una parola comincia a circolare con tale frequenza, prende una vita propria, va avanti, potremmo dire, da sola. Stefano Bartezzaghi ha esposto ieri il suo dissenso dalla mia opinione con finezza di argomenti. Ne condivido pienamente uno: gli originali termini inglesi del calcio ( football ) sono stati in gran parte sostituiti da equivalenti italiani quando le squadre italiane hanno cominciato a battere quelle inglesi. Infatti, l’inglese è diventato lingua globale dopo il 1945 perché gli americani hanno vinto la guerra. Il latino divenne lingua universale di quel mondo perché imposto dalle legioni trionfanti dalla gelida Inghilterra ai roventi deserti. Le lingue sono anche un’affermazione di forza e questa non è l’ultima delle ragioni per cui continuerò “to show the flag” dicendo e scrivendo clausura. Almeno quello.