20 ottobre 2020
In morte di Enzo Mari
Chiara Alessi, rivistastudio.com
«La stipsi di Danese contro la diarrea dell’Ikea». Primi anni Novanta. C’era una volta in cui Villa Malaparte sapeva ospitare nei suoi salotti due designer a scannarsi sulle ragioni (ma più che altro i torti) del mondo della produzione, riuniti da quel titolo piuttosto assurdo. Uno è Enzo Mari, che per il piccolo editore milanese (Danese, appunto) disegnerà la maggior parte dei suoi oggetti passati alla storia del design, l’altro è Alessandro Mendini, che dato che la milanesità alto borghese ce l’aveva dentro, in quel confronto quasi sicuramente non alzò mai la voce, pur non risparmiando le sue stoccate. Anche perché Mari era molto più grosso e abbastanza spesso incazzato. E Mendini tutto il contrario. Non c’è un video dell’incontro. Ci sono i ricordi di chi me lo ha raccontato come di un tempo in cui intorno al design si costruivano ideologie, si litigava, ci si schierava apertamente, si prendeva una posizione grossa, solida, difficile e caso mai, come farà Mari per un certo tempo, si poteva anche rinunciare a lavorare per questioni di principio. Se ci fosse un video, sentiremmo ancora la cadenza ruvida della provincia del Piemonte orientale di Mari soverchiare la voce sottile di Sandro, nata nel centro di Milano e cresciuta alla scuola tedesca. Due giganti, si è detto. Due utopisti. Insieme a Ettore Sottsass, Mari e Mendini erano gli ultimi grandi utopisti del design italiano. Mendini diceva di Mari che era «un inquisitore progettuale» (Domus, 607, 1980). E in effetti il suo «Vuotate tutto, cambiate tutto, reinventate tutto!» era uno di quei messaggi che non potevano non scuotere le coscienze. Il punto è che probabilmente, visto l’acume di Mari, la prima coscienza a farci i conti era proprio la sua. Ed è anche l’ultima sotto cui passare l’esame.
Ma prima di cosa o come, perché progettare? La risposta che si dava (e che potrebbe per sempre chiudere l’ansiogena questione di che senso abbia continuare a ridisegnare sedie, lampade, divani di cui, come evidente, siamo già strapieni) era che si deve guardare fuori da sé, fuori dalla finestra. Se quello che vedi ti sembra buono, allora non ha alcun senso continuare a fare e ci si deve fermare. Se quello che vedi invece non ti piace, non funziona, potrebbe andare meglio, allora è doveroso intervenire. «Progettare per non essere progettati», diceva. E poi studiare. Osservare. Raccogliere. Assecondare la «fame di capire». Come quando da piccolo prende un martello, fa un buco nel pavimento del balcone e spia quello che succede lì sotto. È il suo primo progetto: il primo dei chiodi che pianta. Guardare fuori. O sotto. Studiare cosa c’è da cambiare. Essere dentro al problema.
La mostra recentemente inaugurata in Triennale e curata da Hans Ulrich Obrist con Francesca Giacomelli, è introdotta da una legenda in cui i progetti su committenza delle aziende sono segnati diversamente da quelli nati liberamente (guai usare la parola “creatività”). Etero ed auto commissione. Una distinzione importante e doverosa, in cui però la cosa più interessante è scovare i tanti nodi in cui, proprio nel lavoro con l’industria, si concentra la carica ideologica e politica più sferzante di Mari. Non essersi chiuso nell’arte, ma essersi aperto al design è quindi forse l’allegoria (parola che amava) più precisa della sua tensione verso il mondo e le cose (parola nel suo caso preferibile a “oggetti”; come “lavoro” è preferibile a “progetto”). Non smettere di cercare la tigre, come la chiamava lui, l’alleato del soldato dell’utopia, nel mondo. Credo che se ne sia andato ancora inseguendola.
Enzo Mari è stato un progettista che ha abitato la contraddizione, anzi – come avrebbe detto lui mutuandolo dal gergo sindacalista – la contrattazione. D’altronde non dev’essere semplice fare i conti con il tema dell’ecologia da promuovere e della produzione industriale da aborrire quando, di mestiere, immetti cose nel mondo. Non dev’essere automatico lavorare per le masse alienate, vendendo al pubblico borghese. Non dev’essere pacificabile considerare la grande arte popolare, unita, totale e poi operare con la piccola serie di un movimento artistico d’avanguardia. E infatti nel tempo il lavoro di Enzo Mari è stato molto malinteso (si pensi al Manuale di autoprogettazione del 1976 che venne interpretato dai più come una specie di esercizio di decoupage per signore annoiate) e lui stesso si è contraddetto (scegliendo per esempio editori e imprenditori che qualche anno prima avrebbe considerato «senza coraggio», che non conoscono la differenza tra «design, moda e karaoke»).
Non so se avesse già la barba bianca quando si chiese: «Chi è il designer migliore?». Ma visto che non poteva ribattere a una domanda che sembrava provocata dal mercato, la riformulò: «Chi è il meno peggiore?». E si rispose così (anzi, lo scrisse, rigorosamente in corsivo): «È un vecchio povero contadino che pianta un bosco di castagni. Non potrà mangiare le prime castagne, non potrà utilizzare il legno, in agosto non potrà godere dell’ombra di un grande albero. Lui no, i suoi nipoti sì. I contadini sono ottimi designer». La mia generazione se l’è spesso presa con Enzo Mari, cazziatore delle giovani schiere di progettisti a cui voleva negare l’accesso alla sua eredità, saltando almeno quarant’anni perché si riformasse una nuova ondata di designer. Ma ora che se n’è andato, che si sposta da quella posizione di ieratico censore, ecco, ce lo ha fatto vedere quel bosco di castagni.
***
Michele Masneri, Il Foglio
Era un po’ la Miuccia Prada del design: defilatissimo e rigoroso e “coscienza critica” dei colleghi. Mai mainstream: poco, pochissimo incline alla decorazione. E’ morto ieri per Covid Enzo Mari, tra le ultime leggende del design italiano. L’annuncio l’ha dato Stefano Boeri, presidente della Triennale di Milano, dove da pochi giorni aveva aperto la grande mostra proprio a lui dedicata, e curata da Hans Ulrich Obrist.
Mari aveva 88 anni ed era considerato coi Magistretti, Castiglioni, Mendini, uno dei grandi vecchi del design milanese. A differenza di questi, appunto, era quello più di ricerca, quello meno legato a prodotti “iconici”, non essendoci un oggetto che lo ricollega a lui; o meglio, ce ne sono, sono tanti, tutti diversi tra loro: e non quelli che ci si aspetta. Certo ci sono i celebri animali di legno che andavano a ricomporsi in una specie di puzzle ligneo, oggetto del desiderio per ragazzini o meglio per i loro genitori riflessivi specialmente lombardi, che ne facevano dono alla prole che sognava probabilmente Playstation e Playmobil. O una famiglia di calendari scarni e grafici e da aggiornare manualmente (dunque degli anti-calendari, perfetto prodotto del resto di un anti-designer). O ancora il vassoio-centrotavola industrialista “Putrella” che oggi definiremmo “ugly chic” (facendolo rivoltare ovviamente nella tomba). Grande producer di libri, anche: come il suo maestro Bruno Munari: sia come scrittore che come grafico – tutti abbiamo in casa le bellissime Universale scientifica Boringhieri, su cui abbiamo letto Freud, e i Classici Adelphi. “Forse esagero con l’idea di purismo” disse in un’intervista. “Ma sono convinto che nella forma vada eliminato il superfluo per ritrovarla povera, essenziale”.
Ottantotto anni vissuti dunque all’insegna dell’estremismo: estremo per le prese di posizione contro la mercificazione (“il design è spreco, è un non-design”, la merce è una religione, ecc.), e sacerdote del progetto onesto per prodotti robusti e rinnovabili, nemico del disegno al computer. Per la sua intransigenza era molto amato dagli studenti, un po’ meno dai colleghi: malmostoso-grumpy col suo sigaro toscano, alzava volentieri la voce ma solo in pubblico (Mendini diceva che Mari rappresenta la coscienza dei designer, per Italo Rota invece era un cavallo pazzo dagli zoccoli segretamente borghesi).
Dietro la facciata ruvida abitava però l’umorismo, dice al Foglio Stefano Boeri. “Non era una persona seriosa, era anzi perfettamente consapevole di recitare una parte. Era anche molto autoironico, cosa che ti faceva perdonare le sfuriate, o i monologhi infiniti”. Questa duplicità si riflette anche negli oggetti: che alla fine avevano, nella brutalità, qualcosa di poetico. “Era rigorosissimo sul metodo di messa in evidenza di tutte le possibilità di un oggetto, poi però quando si trattava di arrivare alla sintesi, all’essenza, inseriva sempre un elemento lirico: non era mai semplice riduzione”, dice sempre Boeri. Vengono in mente i tagliacarte alati o la stessa Putrella. O gli animaletti, teneri, pur nel loro perfetto incastrarsi a formare un perfetto pezzo di legno.
Nato povero vicino Novara, papà immigrato pugliese, Mari frequentò l’Accademia di Brera negli anni ’50 occupandosi di scenografia, ma poi sarà soprattutto artista, col vezzo del dichiararsi ignorante. Negli anni ’60 si avvicina all’arte programmata e dunque all’industrial design di cui Milano era diventato il cuore pulsante europeo: a forza di fare libri e mostre con amici e maestri della grandezza di Max Bill, Bruno Munari, Angelo Mangiarotti, diventa sempre più centrale anche perché, a differenza di altri, non smette mai di studiare. Uno dei cinque Compassi d’oro infatti lo vince solo per le sue ricerche, il che lo inorgoglisce.
Aveva fatto politica, sempre: ma mai in modo codificato. Un’altra mostra in questi giorni a Milano è intitolata a “Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe,” che, nel 1973, con titolo da Lina Wertmüller, offrì scandalo e spunti per un vero Radical chic italiano. Lui si sentì comunque sempre un artigiano comunista, che nei primi anni ’70 come altri promuove l’auto-progettazione, un uno-vale-uno architettonico con la partecipazione del pubblico anche al design (manuali per costruire librerie e sedie e tavoli), al pari di chi la sosteneva nell’architettura. Ottenendo con classica eterogenesi dei fini esiti da artista globale e trendy: i suoi prototipi in legno, bene evocati dal rispettoso allestimento di Paolo Ulian nella mostra alla Triennale, finivano però dritti dritti nelle collezioni del MoMA o del Pompidou e battuti all’asta per prezzi esorbitanti, alimentando cioè quel processo della mercificazione e del marketing che tanto detestava. Altro che Ikea.
Di certo Milano non può rammaricarsi di non aver fatto il proprio dovere per omaggiarlo e conservarne la memoria: il Comune ha acquisito l’archivio, che però sarà consultabile solo fra 40 anni (!) per volere dell’autore, la Triennale ha riaperto dopo lunghi mesi proprio con una mostra imponente a lui dedicata, e curata dal più celebre curator al mondo, Obrist, che avrebbe voluto chiamarla “Marimania”, con enorme catalogo Electa (e fine dei lavori di ristrutturazione del palazzo della Triennale di Giovanni Muzio, ora tornato all’antico splendore originario, senza muri divisori; con la galleria al secondo piano alta e lunga come un portico dell’Eur).
Padre dello scrittore Michele, che l’ha ritratto con filiale rassegnazione nel suo “Leggenda privata”, in un’intervista a Antonio Gnoli di cinque anni fa Mari aveva raccontato la sua vita ormai tutta su un divano (di sua ideazione). “È la mia nave. Ci vivo da anni. Salgo a bordo la mattina e scendo la sera. Qualche breve intervallo. Pisciare. Mangiare. Rispondere a qualche scocciatore. Dormire. Io e questo cazzo di divano siamo diventati una cosa sola. Potrei ancora progettare da qui; richiamarmi alla realtà, il solo tabernacolo al quale mi inchino. Ma so che è tutto inutile. Superata una certa soglia mentale tutto diventa inutile”. Disse anche che dopo gli ottant’anni tutti assomigliano a Ezra Pound.
***
Fulvio Irace, Il Sole 24 Ore
Per una involontaria ironia della sorte, Enzo Mari, scomparso ieri a 88 anni, esce di scena due giorni dopo l’inaugurazione alla Triennale di Milano di una grande mostra riassuntiva del suo lavoro: messa in scena – gioiosa e pensosa al tempo stesso – che fungerà meglio di ogni altra commemorazione come una trionfale messa funebre in onore dell’ultimo maestro e insieme del grande fustigatore dell’intero sistema del design postmoderno. Nato nel 1932 a Cerano (Novara), Mari (Ambrogino d’oro nel 2015) non è stato solo milanese d’adozione: della città industriale degli anni 60 aveva preso e assimilato l’anima più colta e nobile, quella degli artisti d’avanguardia e degli intellettuali che in quegli anni di fuoco e di speranze tennero alta la tensione verso una cultura integrata tra arte, architettura e pensiero.
Chi lo ha conosciuto personalmente, non può non ricordarne la figura ascetica e austera che ricordava, già nella fisionomia, l’iconografia di un grande pioniere della storia del design mondiale, il fondatore dell’Arts and Crafts Movement William Morris, che accese il motore della riconciliazione tra arte e industria nell’Inghilterra vittoriana. A poco più di 60 anni, avrebbe potuto già figurare in uno di quei film in costume dove la militanza politica era solo l’altra, indissolubile, faccia della medaglia della militanza intellettuale, in qualunque campo questa si esercitasse. Nello studio-archivio di piazzale Baracca riceveva critici e cronisti, tutti intimiditi dalla posa minacciosa e a volte anche collerica con cui rivendicava la sua alterità rispetto al nascente sistema del design e dell’ambigua nozione di “made in Italy”, al punto da far dire ad Alessandro Mendini (tra i pochi frequentatori ammessi alle parche occasioni conviviali casalinghe negli ultimi anni del declino fisico): «Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa».
Mari intimidiva, Mari incuteva rispetto, Mari suscitava in chi lo ascoltava un senso di inferiorità e al tempo stesso di speranza: quando il design era diventata la merce di scambio di un capitalismo ubriaco di immagine, ti comunicava il sentimento di un possibile riscatto da quella patina luccicante di consenso che aveva cominciato ad avvolgere il mondo degli oggetti, facendolo ruotare intorno al falso mito del designer unto dal successo. Proprio lui che la storia del design stava scrivendo con la penna e con le mani, con la teoria e con la prassi, unico modo, secondo lui, di riscattare, alla maniera di Marx, l’alienazione del lavoro. Quattro Compassi d’Oro (più uno alla carriera), presidente dell’Adi dal 1976 al 1979, organizzò mostre memorabili, scrisse libri fondamentali sulla qualità del lavoro, rivendicò sempre la centralità della “questione umana” nella definizione di una teoria dei bisogni che riteneva alla base di ogni possibile forma di progetto.
Chi visiterà la mostra in Triennale avrà modo di constatare la complessità (non priva di contraddizioni, ma proprio per questa più veritiera e anti-agiografica) della sua proposta che in fondo si poneva il problema di rimettere in riga il design, spostandolo dalla pretesa di rendere bello il mondo a quella di renderlo più giusto attraverso una forma di bellezza che non facesse torto al sapere dell’artigiano e ai bisogni (e desideri) del pubblico.
Nel tentativo di trasportare l’utopia socialista in quella della bellezza per tutti, Mari è stato infaticabile e inimitabile: arrivando persino a suggerire una riduzione del ruolo del designer con la proposta di un’“Autoprogettazione”, 19 modelli di sedie, tavoli, armadi, eccetera, da realizzare autonomamente assemblando tavole grezze e pochi chiodi.
Poeta delle contraddizioni, Mari ha potuto così regalarci oggetti di rustica schiettezza come la Sedia P o la Pop Kid’s Chair e raffinatissimi, politi oggetti da scrivania per Danese; vasi di plastica riciclata (Ecolo) e delicate anfore per la Royal Porcelain Manufactury Berlin. Qualunque tipologia di mobile o di oggetto trovasse spazio nella sua mente accalorata, si elevava di scatto sullo stereotipo e sullo standardizzato, assumendo la grazia stupefatta di una cosa inventata non per artificio di forma, ma per coscienza della sua rarefatta funzione.
Mari predicava il design come lotta di classe per superare quella che chiamava la cultura del karaoke, dello scimmiottamento per ripetizione: non cercava l’oggetto di tendenza, ma aspirava all’oggetto perfetto. Una volta, per spiegare a degli studenti quello che si aspettava da loro, ricordò la pratica dei maestri giapponesi che prima di dedicarsi all’arte del dipingere trascorrevano lunghi anni di silenzio in estenuanti esercizi, tracciando sempre lo stesso segno fino ad arrivare alla fluidità automatica della perfezione: solo quando la mano aveva assimilato l’essenza del soggetto da riprodurre, poteva aver luogo il mistero della creazione spontanea. Non tutti compresero, perché convinti dal falso mito della creazione come atto spontaneo e veloce, e fu per lui motivo di rabbia e di delusione. Ma, per chi sia disposto ancora a credere nel suo insegnamento, rimane la convinzione che la perfezione nasce dalla rarefazione: niente a che vedere con la moda del minimalismo, però. Per Mari il “meno” poteva diventare il “più” solo quando l’idea si era fatta strada nella nebbia dell’apparenza per raggiungere la sua anima. Che ovviamente vola, come tutte le cose disegnate dalle sue ruvide mani.
Per una involontaria ironia della sorte, Enzo Mari, scomparso ieri a 88 anni, esce di scena due giorni dopo l’inaugurazione alla Triennale di Milano di una grande mostra riassuntiva del suo lavoro: messa in scena – gioiosa e pensosa al tempo stesso – che fungerà meglio di ogni altra commemorazione come una trionfale messa funebre in onore dell’ultimo maestro e insieme del grande fustigatore dell’intero sistema del design postmoderno. Nato nel 1932 a Cerano (Novara), Mari (Ambrogino d’oro nel 2015) non è stato solo milanese d’adozione: della città industriale degli anni 60 aveva preso e assimilato l’anima più colta e nobile, quella degli artisti d’avanguardia e degli intellettuali che in quegli anni di fuoco e di speranze tennero alta la tensione verso una cultura integrata tra arte, architettura e pensiero.
Chi lo ha conosciuto personalmente, non può non ricordarne la figura ascetica e austera che ricordava, già nella fisionomia, l’iconografia di un grande pioniere della storia del design mondiale, il fondatore dell’Arts and Crafts Movement William Morris, che accese il motore della riconciliazione tra arte e industria nell’Inghilterra vittoriana. A poco più di 60 anni, avrebbe potuto già figurare in uno di quei film in costume dove la militanza politica era solo l’altra, indissolubile, faccia della medaglia della militanza intellettuale, in qualunque campo questa si esercitasse. Nello studio-archivio di piazzale Baracca riceveva critici e cronisti, tutti intimiditi dalla posa minacciosa e a volte anche collerica con cui rivendicava la sua alterità rispetto al nascente sistema del design e dell’ambigua nozione di “made in Italy”, al punto da far dire ad Alessandro Mendini (tra i pochi frequentatori ammessi alle parche occasioni conviviali casalinghe negli ultimi anni del declino fisico): «Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa».
Mari intimidiva, Mari incuteva rispetto, Mari suscitava in chi lo ascoltava un senso di inferiorità e al tempo stesso di speranza: quando il design era diventata la merce di scambio di un capitalismo ubriaco di immagine, ti comunicava il sentimento di un possibile riscatto da quella patina luccicante di consenso che aveva cominciato ad avvolgere il mondo degli oggetti, facendolo ruotare intorno al falso mito del designer unto dal successo. Proprio lui che la storia del design stava scrivendo con la penna e con le mani, con la teoria e con la prassi, unico modo, secondo lui, di riscattare, alla maniera di Marx, l’alienazione del lavoro. Quattro Compassi d’Oro (più uno alla carriera), presidente dell’Adi dal 1976 al 1979, organizzò mostre memorabili, scrisse libri fondamentali sulla qualità del lavoro, rivendicò sempre la centralità della “questione umana” nella definizione di una teoria dei bisogni che riteneva alla base di ogni possibile forma di progetto.
Chi visiterà la mostra in Triennale avrà modo di constatare la complessità (non priva di contraddizioni, ma proprio per questa più veritiera e anti-agiografica) della sua proposta che in fondo si poneva il problema di rimettere in riga il design, spostandolo dalla pretesa di rendere bello il mondo a quella di renderlo più giusto attraverso una forma di bellezza che non facesse torto al sapere dell’artigiano e ai bisogni (e desideri) del pubblico.
Nel tentativo di trasportare l’utopia socialista in quella della bellezza per tutti, Mari è stato infaticabile e inimitabile: arrivando persino a suggerire una riduzione del ruolo del designer con la proposta di un’“Autoprogettazione”, 19 modelli di sedie, tavoli, armadi, eccetera, da realizzare autonomamente assemblando tavole grezze e pochi chiodi.
Poeta delle contraddizioni, Mari ha potuto così regalarci oggetti di rustica schiettezza come la Sedia P o la Pop Kid’s Chair e raffinatissimi, politi oggetti da scrivania per Danese; vasi di plastica riciclata (Ecolo) e delicate anfore per la Royal Porcelain Manufactury Berlin. Qualunque tipologia di mobile o di oggetto trovasse spazio nella sua mente accalorata, si elevava di scatto sullo stereotipo e sullo standardizzato, assumendo la grazia stupefatta di una cosa inventata non per artificio di forma, ma per coscienza della sua rarefatta funzione.
Mari predicava il design come lotta di classe per superare quella che chiamava la cultura del karaoke, dello scimmiottamento per ripetizione: non cercava l’oggetto di tendenza, ma aspirava all’oggetto perfetto. Una volta, per spiegare a degli studenti quello che si aspettava da loro, ricordò la pratica dei maestri giapponesi che prima di dedicarsi all’arte del dipingere trascorrevano lunghi anni di silenzio in estenuanti esercizi, tracciando sempre lo stesso segno fino ad arrivare alla fluidità automatica della perfezione: solo quando la mano aveva assimilato l’essenza del soggetto da riprodurre, poteva aver luogo il mistero della creazione spontanea. Non tutti compresero, perché convinti dal falso mito della creazione come atto spontaneo e veloce, e fu per lui motivo di rabbia e di delusione. Ma, per chi sia disposto ancora a credere nel suo insegnamento, rimane la convinzione che la perfezione nasce dalla rarefazione: niente a che vedere con la moda del minimalismo, però. Per Mari il “meno” poteva diventare il “più” solo quando l’idea si era fatta strada nella nebbia dell’apparenza per raggiungere la sua anima. Che ovviamente vola, come tutte le cose disegnate dalle sue ruvide mani.