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 2020  ottobre 20 Martedì calendario

La ricetta dell’Asia spiegata da Parag Khanna

Velocità di risposta. Competenza e trasparenza delle decisioni. Fiducia dei cittadini in chi li governa. È questa secondo Parag Khanna, 43 anni, politologo americano di base a Singapore e autore di bestseller come Il secolo asiatico? , la ricetta con cui i paesi dell’Asia Orientale, dalla Corea del Sud alla Cina, sono riusciti a contenere meglio di tutti gli altri il coronavirus. Mentre Europa e Stati Uniti sono alle prese con nuove ondate epidemiche, in Estremo Oriente la situazione appare sotto controllo, una convivenza con il virus in cui la vita è tornata a scorrere quasi normale e i nuovi, piccoli focolai vengono isolati con rapidità. Un modello a cui secondo Khanna, anche i governi occidentali potrebbero e dovrebbero ispirarsi.
Cina, Corea del Sud, Singapore, Taiwan, Giappone, Vietnam: statistiche alla mano sono questi i Paesi che hanno contenuto meglio il coronavirus. Come ci sono riusciti?
«Ci sono varie ragioni, che a mio avviso hanno tutte pari importanza. La prima è che questi Paesi 17 anni fa hanno avuto l’esperienza dell’epidemia di Sars, che ha avuto un profondo impatto sulle loro opinioni pubbliche e le loro economie. Da allora hanno imparato quanto sia importante avere sistemi sanitari solidi e rispondere con rapidità a questi focolai. Il loro livello di preparazione, sociale e politica, era più alto, lo testimonia il fatto che in Asia non si è mai dibattuto sull’utilità delle mascherine, tutti le portavano fin dall’inizio. L’altro fattore è la fiducia dei cittadini nei governi: credono nella loro competenza e nel fatto che vogliano proteggere la vita e il benessere delle persone, che non agiscano secondo logiche politiche ma comprendano il rischio. E ovviamente, ultimo aspetto, c’è il fatto che quei governi sono davvero competenti e trasparenti».
Eppure quei Paesi sono molto diversi, si va dall’autoritarismo della Cina di Xi Jinping alla democrazia liberale coreana.
«Il successo della loro risposta non ha a che fare con il tipo del regime, autoritario o democratico, bensì con la competenza, l’efficacia delle misure e la trasparenza. Anche la Cina, che non è trasparente verso il mondo esterno, è stata molto diretta e trasparente nel comunicare ai cittadini il senso delle misure adottate, che non a caso sono state rispettate da tutti».
Un enorme contrasto con la confusione che regna a Occidente, negli Usa ma anche in Europa.
«Non generalizzerei parlando di Occidente, perché alcuni Paesi si sono comportati meglio di altri. Le democrazie populiste hanno gestito molto male l’epidemia, cosa che non mi stupisce, mentre le democrazie parlamentari con un welfare state solido e funzionari pubblici competenti se la sono cavata molto meglio».
Ci sono aspetti di questo modello di convivenza con il virus che possono essere adottati ora dai Paesi occidentali, oppure sono legati a elementi culturali e politici peculiari del mondo asiatico?
«Tutti gli aspetti che ho menzionato possono essere importati dall’Occidente. L’unico elemento estraneo è l’autoritarismo, ma come ho detto non è quella la ragione del successo della Cina. Anzi, credo che fra qualche anno guardandoci indietro riconosceremo che i veri vincitori di questa pandemia sono le democrazie asiatiche, che hanno difeso i propri valori, mostrato competenza e solidarietà sociale, sconfiggendo il virus in maniera organica anziché con gli strumenti di un regime autoritario».
Eppure la Cina ha azzerato il contagio e la sua economia si sta rialzando prima e con più decisione delle altre. Non è lei la grande vincitrice dalla pandemia?
«Non credo che i dati sulla crescita economica siano l’indicatore più importante, o almeno l’unico. Al contrario, dal punto di vista geopolitico la Cina è piuttosto il grande perdente dell’epidemia, in tutto il mondo la fiducia nei suoi confronti si è volatilizzata, e non tornerà più per molto tempo, direi almeno per una generazione».
Il coronavirus segna la fine della globalizzazione così come la conoscevamo?
«L’epidemia stessa è un elemento della globalizzazione, che non è certo destinata a sparire, il punto è capire se e come ne muterà la direzione. Sotto alcuni aspetti la globalizzazione diventerà più regionale, per esempio la produzione industriale, la forza lavoro o l’energia, ma i flussi di capitali finanziari, così come quelli dei dati, resteranno globali».
La tesi del suo ultimo libro è che questo secolo sarà asiatico. L’epidemia accelererà questa transizione globale di potenza?
«Non c’è dubbio. L’Asia in questo momento è l’unica parte del mondo che sta avendo una ripresa economica. La mia tesi è che in Asia non ci sia un vero e proprio ordine, una visione del mondo comune e delle chiare gerarchie, bensì un sistema di relazioni ad alta intensità, che sta diventando la parte più importante del sistema globale. Dopo l’epidemia, per il modo in cui la sta superando, l’Asia crescerà più in fretta del resto del mondo, si stabilizzerà più in fretta e aumenterà la sua integrazione».