L’Arena di Verona, 20 ottobre 2020
1QQAFZ13 Intervista ad Annamaria Conforti
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Alla figlia di Silvio Conforti è capitato fra capo e collo un contrappasso che proprio non si aspettava. Dopo un’infanzia trascorsa fra casseforti spalancate, a 91 anni suonati si ritrova rinchiusa da settimane, a doppia mandata, dentro la casa di cura Sant’Anna, in via Marsala 8, a Verona. «Percorro mille volte al giorno il corridoio, avanti e indrè, come Papillon. Perché, se esco da qui, non mi fanno rientrare», sbuffa, ma senza recriminare. Non è ospite fissa, anzi aveva programmato una visita dal dentista, un’altra dal parrucchiere e una capatina nel suo appartamento di viale della Repubblica, ma ha scoperto che queste attività sarebbero state incompatibili con il suo attuale status di moglie crocerossina. «Mi ritrovo sequestrata dalle ferree norme contro il coronavirus», spiega, «che impediscono a chi è fuori di entrare e a chi è dentro di uscire».La signora non poteva evitare di varcare la soglia della clinica al seguito del marito, l’architetto Luigi Calcagni, suo coetaneo, storico assessore al Bilancio del Comune di Verona dal 1971 al 1980 in quota al Pri, al quale si deve il progetto di restauro della Gran Guardia. Il professionista, che negli anni Sessanta fu assistente dell’urbanista Leonardo Benevolo presso la facoltà di Architettura di Venezia, nelle scorse settimane ha avuto la cattiva idea di mettere un piede in fallo sul gradino più alto di una scala nella sua casa di villeggiatura a San Zeno di Montagna, e di farsela a capofitto fino in fondo, uscendo dal ruzzolone miracolosamente vivo ma vistosamente ammaccato. Ciò ha comportato un intervento chirurgico nella clinica Pederzoli di Peschiera e ora la lunga degenza per la riabilitazione nella residenza Sant’Anna. «Vivo qui con lui, mangio qui, dormo qui, sono la sua dama di compagnia», spiega la moglie.
La pena del contrappasso diventa più evidente se si considera che la professoressa Conforti, fino al 2014 docente nel corso di laurea in Beni culturali dell’Università di Verona, ha trascorso all’aria aperta la sua intera esistenza di studiosa, come attesta l’insolita materia che insegnava, giardini storici, e soprattutto come documentano i libri che ha pubblicato: Le mura di Verona. La città e le sue difese, dalla fondazione romana all’Unità d’Italia (Cierre, 1999); Bellissima è dunque la rosa, sui giardini dalle signorie alla Serenissima (Il Saggiatore, 2003); Bei sentieri, lente acque, sui giardini del Lombardo-Veneto (Il Saggiatore, 2007); Una gran casa, cui sia di tetto il cielo, sul giardino nell’Italia del Novecento (Il Saggiatore, 2011); Il Giardino Giusti (Cierre, 2016); Giuseppe Jappelli. Ingegnere, architetto e soldato fra Napoleone e l’Austria (Lineadacqua, 2017). Lo scorso gennaio ha mandato in libreria Paradisi ritrovati (Aracne editrice), un saggio che analizza 23 casi di luoghi europei restituiti alla natura dopo che avevano subito il più totale degrado a causa dell’inquinamento.
Annamaria Conforti torna ora a indagare sui muri con un saggio di 204 pagine, Beatrice regina, un romanzo scaligero di prossima uscita sempre con Aracne, che le è costato quasi due anni di fatiche. E che muri: quelli della chiesa di Santa Maria alla Scala a Milano, fatta abbattere nel 1776 da Maria Teresa d’Austria, sulle cui rovine l’architetto Giuseppe Piermarini costruì il teatro oggi più famoso al mondo, il Teatro alla Scala, appunto. «Pochi sanno che questo tempio della lirica deve il suo nome alla nostra concittadina Beatrice della Scala, figlia di Mastino II e sorella di Cangrande II, Cansignorio e Paolo Alboino della Scala, signori di Verona e Vicenza dal 1351 al 1375», racconta.
In teoria l’ex docente universitaria avrebbe dovuto occuparsi, nella vita, della prestigiosa azienda di famiglia. Il padre Silvio, nato da genitori poverissimi, riuscì a evitare la Prima guerra mondiale: fu riformato per via dei piedi piatti. Dopo aver frequentato un corso patrocinato dal nobile Ignazio Weil Weiss, disegnò un forziere in acciaio con il frontale decorato in stile Art Nouveau: «La toppa era occultata da fiori e svolazzi», rievoca la figlia. Vinse un premio di 450 lire, poco meno di 2.000 euro odierni, e poté trasferirsi come apprendista nella fabbrica di casseforti Pistono a Torino.
Tornato a Verona, nel 1912 fondò la Conforti e mise su famiglia con Maria Nicolini. Nel 1923 nacque Franco, nel 1926 Leopoldo, nel 1929 Annamaria, nel 1933 Marcella. «Siamo rimasti Leopoldo e io», sospira la terzogenita, venuta al mondo nella casa dei Nicolini, in via Nicola Mazza.
Dove si è diplomata?
Al Maffei. Una volta era difficile, sa? L’esame di maturità verteva su tutte le materie studiate nel triennio del liceo classico. Ricordo che in filosofia venni interrogata dai presocratici a Kant. Fummo rimandati in massa a settembre per colpa dei tre supplenti di scienze che avevamo cambiato nell’ultimo anno.
Ma in autunno fu promossa.
Ovvio. M’iscrissi all’Università di Padova. Mi laureai in Lettere e Filosofia con una tesi sulle novelle di Thomas Mann. Il mio relatore fu il germanista Ladislao Mittner, che nel 1936 aveva pubblicato la prima monografia italiana sull’autore dei Buddenbrook e di Morte a Venezia. Intanto mi era entrata nel sangue la passione per la pittura e la scultura.
In che modo?
Grazie alle lezioni del professor Rodolfo Pallucchini, storico dell’arte. Infatti a tre anni dalla laurea mi specializzai in questa disciplina con una tesi sul pittore veronese Pasquale Ottino, l’allievo di Felice Brusasorzi ucciso dalla peste nel 1630.
Dopodiché si guadagnò la cattedra.
Ah, questa l’è bela! Un giorno scendo dal ponte Pietra con il malloppo della mia tesi sotto il braccio e incontro il professor Aldo Pasoli, preside del liceo classico Maffei. Il quale mi chiede: «Le andrebbe d’insegnare tedesco e storia dell’arte all’educandato Agli Angeli? Metà e metà».
Si era laureata anche in Lingue?
No. Però, uscita dall’università, ero stata nella Klosterschule delle orsoline di Innsbruck a imparare il tedesco in una classe di ginnasiali. Questo mi aprì le porte dell’insegnamento. Poi passai al liceo artistico Boccioni e infine all’Università di Verona.
Giardini storici, una materia strana.
Mi hanno sempre attratto. La passione divenne travolgente dopo che il conte Nicolò Giusti del Giardino m’invitò a scrivere la storia del parco di cui ora la famiglia patrizia può fregiarsi nel cognome, creato sul finire del Cinquecento dal suo avo Agostino Giusti, in contatto con i Medici e gli Asburgo e fiduciario della Serenissima. Nicolò è figlio di Francesco, l’eroico capitano caduto trentunenne nel 1942 sul fronte tunisino, e nipote di Justo, che fu per lungo tempo ambasciatore.
Che ha di speciale il Giardino Giusti?
È il più bello d’Italia. È la punta di diamante del Manierismo. Ed è rimasto come l’aveva concepito Agostino Giusti. Solo il recente tornado abbattutosi su Verona è riuscito a stroncare il secolare cipresso di Goethe. Pensi invece al Giardino Treves di Padova, costruito da Jappelli. Oggi è sepolto fra i padiglioni dell’ospedale, che ne fanno un pozzo. Per restaurarlo, Paola Brusadori ha dovuto scavare 2 metri di siringhe prima di ritrovare i sentieri. Nel Giardino Giusti tutto è intatto, a cominciare dal mascherone sul belvedere.
Quello che dalle fauci sputava fiamme sulla città?
Una leggenda. Fu scolpito sull’esempio della bocca di pietra dell’orco del Parco dei Mostri a nord di Roma, voluto dal duca di Bomarzo, amico di Agostino Giusti. C’era chi sosteneva che risalisse all’Ottocento. Invece è coevo al giardino. Sono riuscita a datarlo dai balaustri, che sono identici a quelli della facciata del palazzo affrescata da Orazio Farinati sul finire del Cinquecento.
C’è qualcosa di simile al Giardino Giusti nel Veronese?
Per bellezza? Il Giardino di Pojega nella Villa Rizzardi di Negrar.
Ma i nobili costruivano questi eden per stupire gli ospiti o per goderseli?
Entrambe le cose. Per lo storico dell’arte Jacob Burckhardt, massimo studioso del Rinascimento, non esiste una villa senza giardino. Anzi, se non ha il giardino non si può neppure chiamare villa.
Credo alla capodelegazione veronese del Fondo ambiente italiano.
Ex, ormai. Lo fui all’inizio, per 35 anni. Mi scelse l’architetto Renato Bazzoni, un uomo meraviglioso che nel 1975 fondò il Fai con Giulia Maria Mozzoni Crespi, Franco Russoli e Alberto Predieri ed ebbe a dire: «Il più bel regalo di Nicolò Giusti del Giardino è stata Annamaria Conforti». Si è consumato fino allo spasimo per la difesa del bello in Italia. «Se non viene a me, significa che l’infarto non esiste», ripeteva sempre. Infatti morì d’infarto.
Parliamo di Beatrice della Scala, detta anche Regina della Scala.
Era la seconda dei sette figli legittimi di Mastino II e Taddea da Carrara, quindi sorella maggiore di Cangrande II e Cansignorio. L’anno di nascita è incerto. Il padre decise di darla in sposa a Bernabò Visconti, che nel 1354 diventerà signore di Milano e finirà poi imprigionato dal nipote Gian Galeazzo nel castello di Trezzo, dove morirà forse avvelenato. Le nozze furono celebrate a Milano, il 27 settembre 1350. Durante la cerimonia nuziale fu recitato un componimento poetico attribuito a Francesco Petrarca. La sposa aveva solo 15 anni. Bionda, occhi azzurri, molto bella, su questo concordano tutti gli storici. Fu chiamata Regina per la sua avvenenza, ma anche «per l’animo grande che haveva», riferisce Bernardino Corio.
Ma non è il Corio a descriverla come superba, avida, empia e audace?
Gli Annales Mediolanenses la definiscono «mirabilis domina et sapientissima». Il veronese Torello Saraina, autore di Le historie, e fatti de’ veronesi nei tempi del popolo, e signori Scaligeri, la chiama «Madonna Beatrice Reina moglie del signor Bernabò Vesconte, suntuosa et honorata oltra modo». Non c’è però da stupirsi delle fonti contrarie. Chi detiene il potere, lo esercita in tutti i modi, si sa. Nel processo che Gian Galeazzo Visconti intentò contro Bernabò venne persino accusata di stregoneria, tanto che si narra di rumori sinistri uditi durante il funerale di Regina, subito seguiti da un terremoto. In realtà era una donna amante della cultura e molto intelligente. Anche il suo consorte, comunque, si macchiò di atrocità. Faceva squartare i condannati e assisteva alle sevizie. Molti si salvarono dalla pena capitale per le pressioni esercitate da Regina sul marito. Bernabò era però capace di grandi slanci di generosità, a seconda dell’estro. Pur essendo un mangiapreti, regalava soldi ai parroci di campagna.
La moglie veronese fece erigere una chiesa a Milano.
Quella di Santa Maria Nuova, consacrata all’Assunta nel 1381. Ma fin da subito il popolino la ribattezzò Santa Maria alla Scala, in onore della sovrana scaligera. A farla decadere nella devozione dei milanesi contribuì la costruzione del vicino Duomo. Fu demolita nel 1776 e sulle sue rovine venne eretto l’omonimo teatro, del quale quindi si può dire che abbia le fondamenta veronesi.
Beatrice tornò mai nella città da cui era partita?
Sì, per le nozze del fratello Cansignorio. Lo do per certo.
Nella toponomastica di Verona vi sono vie dedicate a Mastino, Alberto e Brunoro della Scala, ma non a lei.
Non mi meraviglia. Se ne andò quando era poco più che una bambina. E nel 1375, alla morte di Cansignorio, non esitò a mettersi alla testa di 1.400 uomini per venire a reclamare la parte dell’eredità di Mastino II che le spettava.
Quando morì Beatrice della Scala?
Il 18 luglio 1384, dopo aver messo al mondo ben 15 figli. Le sue spoglie e quelle del marito, che si spense un anno e mezzo dopo, furono riunite in due arche oggi conservate nel museo del Castello Sforzesco di Milano.
Non si può dire che il loro fosse stato un matrimonio di convenienza.
Bernabò Visconti ebbe una mezza dozzina di amanti, che gli diedero altrettanti discendenti, ben quattro solo da Donnina Porro, da lui chiamata la Porrina. Ma per Beatrice nutrì sempre un grandissimo amore. Era davvero la sua Regina. Alla morte della moglie ordinò che tutti i sudditi vestissero il lutto per due anni.
Che cosa l’ha affascinata di questa donna al punto da dedicarle un romanzo?
Ha fatto parlare molto di sé e ha lasciato un’impronta nel suo tempo, nonostante abbia trascorso quasi metà della vita in stato interessante. Non è che vi siano molti altri esempi di donne così nella storia del Trecento.
Mi scusi, per caso lei è femminista?
Moderatamente. (Ci pensa). Diciamo di sì. Reputo che nel nostro Paese il sesso femminile conti molto meno di quanto dovrebbe nella gestione della cosa pubblica.
Sono perfettamente d’accordo.
Bene.
Vede un corrispettivo di Beatrice della Scala nell’Italia di oggi?
No davvero. Forse Nilde Iotti in quella di ieri. O Tina Anselmi, la prima donna a ricoprire la carica di ministro nella nostra Repubblica, però non si può dire che avesse il look di Regina.
Della politica odierna che cosa pensa?
Penso malissimo. Siamo in balia di una massa di ignoranti che non sono andati a scuola e che governano senza meritarlo. E mi arrabbio anche. Di Verona taccio, perché giro a piedi o in bicicletta e non vorrei finire linciata.